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Barrique e barricate

“I giovani d’oggi non sanno più lavorare. Dovete imparare a produrre qualcosa con le vostre mani!”. Sembra di ascoltare un incallito reazionario, e invece a parlare è Elio Altare, uno degli artefici della rivoluzione che negli anni Novanta ha cambiato il Barolo, le Langhe e il mondo del vino italiano. Ecco uno dei motivi per cui bisogna guardare Barolo Boys (anche se la frase di cui sopra non è nel film): perché il documentario di Tiziano Gaia e Paolo Casalis, più che sull’enologia, è un’opera sulla vita, sull’eterno contrasto tra padri e figli, sui meccanismi che trasformano gli uomini da incendiari in pompieri. Poi di motivi ce ne sono anche altri: per gli amanti del vino è irresistibile assistere all’eterna querelle tra “modernisti” e “tradizionalisti” e rendersi conto che la stessa diatriba potrebbe applicarsi praticamente a tutte le regioni italiane: dall’Amarone al Chianti, fino al Prosecco e al Cannonau in tempi più recenti, i nostri grandi vini hanno tutti vissuto la trasformazione da bevanda popolare a prodotto di lusso, e contestualmente gli adattamenti al mercato, i mutamenti di gusto e stile, lo scontro tra vecchi e giovani. Infine l’ultimo motivo: Barolo Boys è un bel film per ritmo, vivacità e struttura, in grado di coinvolgere anche lo spettatore che del vino e della storia narrata non sa assolutamente nulla. E ciò a dispetto della presenza (inutile e francamente evitabile) dei “prezzemolini” Joe Bastianich e Oscar Farinetti, d’altra parte anche finanziatore del progetto attraverso Eataly Media.

Certo, il carico da undici ce lo mette l’indiscutibile fascino della storia di un gruppo di piccoli produttori che negli anni Ottanta, ispirandosi alle tecniche di vinificazione francesi, hanno mutato radicalmente il metodo di produzione del Barolo trasformandolo in un vino di estremo pregio, da guide enologiche e da tavole di lusso. Comprese quelle degli Stati Uniti, dove i “Barolo Boys” furono trascinati dall’importatore Marc De Grazia (che, insieme ad Altare, è il vero protagonista del film). Si potrebbe discutere all’infinito, e in effetti in rete lo si sta facendo, su chi avesse ragione tra i due partiti; se i fautori delle barrique e della sfoltitura o quelli della tradizione, dell’identità, del terroir. Di certo, come dice con un certo candore Carlìn Petrini, il “pensiero dominante” di oggi sul vino non è più quello di trent’anni fa, e presumibilmente fra trent’anni sarà ancora diverso: un processo affascinante che, visto in prospettiva, dà il giusto peso a quelle che la comunicazione enologica battezza spesso come verità ma che si rivelano, il più delle volte, semplici opinioni.

Alla fine, quindi, chi ha vinto? La risposta è già nel film: ha vinto la Langa, che da terra brulla e abbandonata si è trasformata in ricercatissima (e costosissima) culla del Made in Italy. Hanno vinto i “langhetti”, usciti da una povertà assoluta e secolare per diventare sofisticati apostoli del vino o perlomeno, e non è poco, per ricostruire paesi e famiglie svuotati dall’emigrazione. I nuovi progetti di Elio Altare, che oggi produce vino dolce nelle Cinqueterre, e di Chiara Boschis con il suoCastelmagno dell’Alta Langa, sono la miglior dimostrazione del fatto che in fondo la strada intrapresa era quella giusta, a dispetto dei puristi che accusano i Boys, magari anche con qualche ragione, di aver “snaturato” il loro prodotto storico.

Ultima postilla non da poco: Altare e Boschis, insieme a un rappresentante della generazione successiva come Alessandro Ceretto, erano presenti alla prima proiezione milanese del film per il ciclo “Food Fighters” organizzato da CeCINEPas, con tanto di degustazione di vini e formaggi. Il tutto davanti a un pubblico quasi da record per un documentario (in platea c’era persino l’attore Renato Pozzetto). Difficile non considerarla un’ottima notizia!

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