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Dieci anni di Identità

Dieci anni di Identità: volendo fare dello spirito, si potrebbe dire che è tempo di rinnovare il documento. Ma forse non sarebbe soltanto una battuta, visto che dal 1995 a oggi – come già rilevato in passato – Identità Golose ha effettivamente cambiato faccia: da torre d’avorio di gozzoviglie per chef altolocati a luogo di riflessione e di condivisione di esperienze globali. Detta così sembra tutta rosa e fiori, in realtà alcune spine restano: un certo tasso di spettacolarizzazione e autoreferenzialità, o l’atteggiamento fastidioso di qualche congressista, che sembra dover scontare peccati di superbia più che di gola. Nel complesso, però, finisce per prevalere l’intelligenza. E proprio questo è stato il tema dell’edizione 2014 del festival milanese: “Una golosa intelligenza”, definita dallo stesso Paolo Marchi come “la capacità di salvaguardare memorie e sapori, la capacità di innovare intuendo nuove combinazioni, la capacità di alleggerire grassi e presenze inutili per esaltare sempre di più materie prime, profumi, forme, genio costruttivo, sicurezza nelle proprie azioni”. Tutto bello, ma ci piace pensare che l’intelligenza sia stata scelta anche perché, un po’ come l’arte culinaria, può esprimersi in forme molto diverse: dal marketing più sfrenato alla difesa dei valori culturali, dall’estrema sperimentazione all’abilità imprenditoriale.

Non andremo oltre nel bilancio globale della manifestazione, sia perché è già disposizione l’eccellente resoconto degli organizzatori, sia perché più del solito l’abbiamo assaggiata a spizzichi e bocconi, saltellando da una sala all’altra senza gran criterio. Ricordiamo però lo spazio dedicato alla Thailandia in qualità di paese ospite e la serafica tranquillità dello chef danese Henrik Yde, che oggi divide il suo “Klin Klin” tra Copenaghen e Bangkok, ma in passato mai avrebbe sognato un tale successo: “Il primo micro-ristorante lo aprivamo alle 5 del pomeriggio, per mettere in vendita gli avanzi e non sprecare quello che avevamo cucinato. Quando abbiamo cominciato a vedere 200 persone in fila davanti alla porta abbiamo capito che era ora di ingrandirsi!”. Anche quest’anno abbiamo poi incontrato uno dei pochissimi congressisti che possono vantare dieci anni consecutivi di presenza: niente male, soprattutto per chi di cognome fa Assenza (e di nome, ovviamente, Corrado). Il celebre pasticciere di Noto, questa volta, ha dedicato il suo intervento a dolci invernali incentrati sui frutti di stagione della natìa Sicilia: prodotti unici al mondo, come il lumanzianu (agrume simile al limone) o le pere Passacrassana, da cui nascono piatti dai nomi evocativi di “Campagna iblea d’inverno” e “Giardino d’inverno”. Illuminante soprattutto un passaggio dell’esposizione di Assenza: “Le nostre idee nascono dall’incontro tra la cultura materiale siciliana e il territorio, ma per noi il km zero non esiste, esiste invece il “km buono”. Viviamo in un’isola di passaggio, il continuo scambio culturale con l’Africa e il mondo arabo non si è mai interrotto, nonostante le apparenze. Per questo abbiamo il dovere di uscire dai nostri confini e confrontarci con il mondo”.

Singolare, ma non troppo, l’identità (ops) di vedute con Giuseppe Iannotti, giovane ristoratore campano da un anno insignito della stella Michelin per il suo Kresios a Telese: “Oggi il km zero è il mondo. Certo, vorremmo produrre tutto in casa, ma il piacere di avere il top a tavola non si sostituisce”. Il che non impedisce a Iannotti di proporre un marchio Made in Sannio per tutelare i prodotti locali: “Abbiamo le materie prime, quello che ci manca è la filiera”. Dopo aver servito un assaggio della sua essenziale minestra (ostriche, pasta sminuzzata, fagioli fritti e acqua di cottura dei fagioli, tutto servito nel guscio dell’ostrica stessa), lo chef sannita chiude con questo bignamino: “Un piatto non deve avere cento ingredienti, ne bastano uno o due per creare una pietanza con tanti attributi e sfumature”. Sempre all’interno della rassegna Identità di Pasta si esibisce anche il vulcanico Davide Scabin, impegnato a combattere la crociata della pasta “nuda e in punta di coltello”: grandi formati di pasta cucinati e serviti indipendentemente dal condimento, così da poterli abbinare anche a piatti impegnativi come fegato alla veneziana, o polpo alla luciana. Quando si tratta di sperimentare, Scabin sembra non avere limiti, ma alla fine ammette: “Lo spaghetto pomodoro e basilico sarò pronto a servirlo solo il giorno prima di chiudere!”.

C’è una figura che aleggia nell’aria durante tutto il corso del festival ed è quella di Oscar Farinetti: onnipresente anche quando non c’è, visto che molti degli stand rappresentano aziende di sua proprietà o in qualche modo imparentate con Eataly, alla fine si fa vedere di persona per la presentazione del suo libro “Storie di coraggio”, chiamando sul palco due mostri sacri come Ampelio Bucci e Moreno Cedroni. E ne ha per tutti, come sempre: “In Italia abbiamo 1200 vitigni autoctoni e ne usiamo 450, in Francia con 222 ricavano dieci volte noi dalle esportazioni… L’Italia è il paese che ha meno coscienza della potenza del Made in Italy. Nei prossimi anni il vino deve diventare il motore di tutte le esportazioni italiane nel mondo, e per riuscirci non dobbiamo aumentare la produzione, ma il livello dei prezzi. Pensare locale, agire globale: il contrario di quello che ci dicevano a Economia…”. È ottimista il patron di Eataly, non solo per se stesso (ne ha ben donde) ma per tutto il paese: “I numeri bassi, paradossalmente, sono il nostro futuro: cresceremo se avremo gente in gamba che ci guida, ma cresceremo anche con questi qua, tanto è inevitabile. A un giovane oggi consiglierei di investire sull’agricoltura, non solo sulle materie prime, ma su tutta la filiera; e soprattutto di saper narrare i menu, il cibo, il turismo”. Solo sull’idea di aprire un ristorante Farinetti (insieme a Cedroni) storce il naso: “Troppa burocrazia, in Italia è impossibile”. E l’eterno conflitto qualità-quantità? “Non esiste, non dobbiamo lottare con la grande industria, ma obbligarla a fare un prodotto di alto livello qualitativo”. Basterà a convincere gli scettici?

Chiudiamo con la manifestazione gemella Milano Food & Wine Festival, ancora un po’ in ombra ma quest’anno rivitalizzata dal debutto dell’area Food Experience Mondadori, con corsi di cucina e show cooking di chef di livello (Davide Oldani, Christian Milone). Noi comunque ci siamo concentrati soprattutto sulle 50 aziende vinicole presenti, scoprendo alcune perle: ad esempio i vitigni autoctoni del Friuli, come Ucelut e Forgiarin, prodotti dalla premiatissima cantina Castelcosa. Oppure le Vigne Rada, cantina nuova di zecca nei dintorni di Alghero che produce un Cannonau da 16 gradi ma incredibilmente leggero. Non è una novità invece la cantina Monte Zovo di Caprino Veronese, ma vale più di un assaggio il Ca’ Linverno, frutto di una geniale invenzione di Diego Cottini e del metodo del doppio appassimento. Infine, sapevate che nell’Agro Pontino si coltivano vitigni mai sperimentati in Italia come Viognier e Petit Manseng? Lo fa il Casale del Giglio, ormai da quasi cinquant’anni, e i risultati sono eccellenti.

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Metti una birra a cena

Venerdì 31 gennaio si è tenuta la prima delle "cene birrarie" organizzate dall'EnoPub Gastronomico Il Barbaresco di Legnano: protagonista il birrificio geograficamente più vicino, l'Extraomnes di Marnate, che però è ormai anche uno dei più noti del nostro paese. Noi abbiamo avuto l'onore di parteciparvi sedendo proprio di fronte all'ospite d'onore: Luigi "Schigi" D'Amelio, fresco di premiazione come miglior birraio d'Italia del 2013; lui che birraio non era mai stato, prima dell'inconsueta richiesta della torrefazione El Mundo, ansiosa di "riconvertire" parte del suo stabilimento marnatese. L'operazione è riuscita, eccome se è riuscita; anche attraverso passaggi avventurosi, come abbiamo appreso dagli immaginifici racconti di Schigi, ma soprattutto avvalendosi dei preziosi consigli di tutto il mondo della birra artigianale italiana e prendendo ispirazione a piene mani dal Belgio, un vero e proprio Paradiso in terra per gli amanti della bevanda di Gambrinus.

Sono nate così le birre "del cane": il simbolo del Cave Canem che campeggia sulle etichette Extraomnes è in realtà un omaggio al più fedele amico del birraio, un cirneco dell'Etna. Birre imbottigliate in un formato unico da 33cl, per rispettarne l'indole popolare ed economica; e birre, come abbiamo scoperto, perfettamente abbinabili sia a piatti delle tradizioni regionali nostrane, sia a pietanze più elaborate. Di seguito vi presentiamo il menu della serata: nel frattempo gli assenti si mangino le mani, perché si sono persi una grande occasione per provare la Bloed, la prima birra di ciliegie imbottigliata dal nostro. Una creazione recentissima (si attende ancora l'etichetta definitiva) che però tra non molto, ci scommettiamo, ritroveremo nei frigoriferi di molti aficionados.

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Una vasta platea di appassionati pende dalle labbra di Schigi


Verdure pastellate e frittini in abbinamento alla rinfrescante, fruttata e acidula Zest


Pappardelle con sugo bianco di cinghiale e una corposa Tripel, ingannevolmente brillante ma di grande contenuto alcolico


La Bloed alle ciliegie presentata in "quasi" anteprima al Barbaresco


Ed eccola la Bloed, insieme a uno splendido coniglio cuneese cucinato con la sua "musa" ispiratrice: la belga Kriek


Luigi D'Amelio racconta le sue creazioni


E infine l'abbinamento per noi migliore della serata: tarte tatin al Calvados, perfettamente sposata con il retrogusto di mela della calda Kerst Riserva (birra di Natale da 12 gradi)
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Fuoricasello 2014

Fuoricasello è un fenomeno unico nel panorama italiano delle guide gastronomiche, e ci vuole un breve ripasso storico per capire da dove arrivino gli “editori con un titolo solo”, come amano definirsi, che hanno dato vita a questo piccolo miracolo. I fratelli Longo (Giovanni, Osvaldo e Paola) editori non lo sono affatto, ma da trent’anni gestiscono a Legnano l’omonima Enoteca, una delle più fornite e frequentate rivendite di vini e prodotti tipici d’Italia, specializzata in regalistica per aziende. L’idea della guida è stata di Osvaldo, che per lavoro percorreva più di 100mila km all’anno: perché non raccogliere in un volume tutti gli indirizzi gastronomici di sicuro affidamento a pochi passi dall’autostrada? C’è voluto qualche anno per elaborare il progetto e metterlo in pratica con la collaborazione di Josè Pellegrini, già giornalista del Corriere della Sera; la prima edizione, alla fine, ha visto la luce nel 2006. La circostanza che “nessuno ci avesse mai pensato prima” è poco rilevante, anche perché non è vera: lo aveva fatto, per esempio, il Touring Club Italiano già nel 2004 (ecco la nostra recensione d'epoca). Quello che conta è che Fuoricasello ha conosciuto un successo, quello sì, senza precedenti, superando le 600mila copie vendute in 7 anni e finendo sui sedili di buona parte degli automobilisti d’Italia. A cosa si deve l’exploit? Certamente ai facoltosi clienti dei Longo, dalle imprese che possono permettersi di acquistare 5.000 copie della guida per volta alla Provincia di Milano, che ha già annunciato l’intenzione di utilizzarla come strenna natalizia… Ma il vero segreto di Fuoricasello è un modello unico e vincente di “ricerca sul campo”, affidato a cento segnalatori da tutta Italia, che lo stesso Giovanni Longo definisce “molto più interessanti degli ispettori delle guide”. E non fatichiamo a credergli.

In pochissime parole, Fuoricasello raccoglie in 416 pagine (al costo di 20 euro) ben 735 locali di tutte le regioni d’Italia, accomunati dalla caratteristica di trovarsi “a 5 minuti” dalle uscite di autostrade e superstrade: per dare un’idea, diciamo nel raggio di 10 km al massimo. I ristoranti sono divisi per regione e per autostrada di riferimento, così da poter seguire il percorso uscita per uscita. Ogni recensione affianca alla sintetica descrizione del locale una meritevolmente accurata rassegna dei prezzi, riportando il costo minimo e massimo dei primi e dei secondi, e l’eventuale proposta a menu fisso per il pranzo; non mancano inoltre indicazioni di servizio come la presenza di seggioloni per bambini o attrezzature per disabili. Ma che tipo di ristorante trova spazio in questa guida? Giovanni Longo non ama il termine “chilometro zero” (e ci mancherebbe…) ma parla di “cucina legata al territorio, senza troppi fronzoli e voli pindarici”. Niente chef stellati, insomma, anche se le fasce di prezzo sono abbastanza variabili.

Da segnalare come chicca la prefazione di Bruno Pizzul, indimenticabile telecronista calcistico ma anche appassionato enogastronomo. La particolarità sta nel fatto che Pizzul non ha mai conseguito la patente di guida, e proprio facendosi scarrozzare qua e là ha potuto apprezzare meglio i suggerimenti culinari del volume: “Il viaggio non deve essere solo un collegamento tra partenza e arrivo – ha detto alla presentazione dell’edizione 2014, tenutasi nella sede della Provincia di Milano – ma anche un’esperienza piacevole di per sé. Credo che questo libro dia anche un’indicazione di vita: rallenta, fermati, non essere sempre frenetico”.

Alla guida non c’è nulla da rimproverare sul piano della praticità di consultazione e pochissimo su quello della selezione: forse un po’ di eterogeneità nei locali segnalati, peraltro attesa, visto che il minimo comun denominatore è solo la posizione geografica. Dell’impostazione soffrono ovviamente Sud e isole, meno servite dalle rotte stradali: le regioni meridionali vantano complessivamente solo 167 ristoranti, un po’ pochi per garantire la diffusione nazionale del libro. Che, comunque, continua ad aumentare la tiratura e insegue un sogno proibito: sbarcare anche nella casa del “nemico” Autogrill, forse l’unica azienda italiana che per ovvie ragioni non vede di buon occhio il successo della guida. Il giorno in cui, tra un Camogli e una Rustichella, spunteranno le copie di Fuoricasello, i Longo potranno davvero consumare la loro vendetta sul "triste rito del panino"… Per adesso, la prima battaglia è già vinta.

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Ristoranti di Milano e dintorni 2014

Paradosso numero uno: nell'era di TripAdvisor e di Facebook, dei foodblogger e se vogliamo dei recensori amatoriali come noi, ha ancora senso dare vita a una guida gastronomica cartacea, soprattutto se (per sua autoinvestitura) a vocazione omnicomprensiva e senza pretese di filtro qualitativo? Paradosso numero due: ha senso che sul sito di Repubblica Milano, cioè il quotidiano che pubblica la suddetta guida, il servizio di ricerca ristoranti sia gestito proprio da una delle applicazioni di cui sopra, cioè Cityfan, in un eclatante caso di autoconcorrenza interna?

L'inevitabile risposta a entrambe le domande ci porterebbe a una stroncatura di Ristoranti di Milano e dintorni 2014, la nuova edizione fresca di stampa della guida creata dalla redazione milanese del quotidiano. In effetti, se il libro fosse quello che dichiara di essere, ossia un asettico elenco di locali di ogni ordine e grado, non basterebbero a salvarlo dall'inutilità tutti i suoi evidenti pregi: il basso prezzo (9,90 euro per 386 pagine), il packaging leggero e maneggevole, la relativa semplicità di consultazione. Il fatto è che i curatori mentono spudoratamente: la guida un'impostazione "autoriale" ce l'ha eccome, e lo dimostrano proprio le ultime innovazioni introdotte in questa edizione. La lista dei ristoranti consigliati altro non è che un giudizio di merito, sia pure un po' mascherato, e altrettanto si può dire per i percorsi a tema (cene low cost, cucina tradizionale, locali per nottambuli...) e le raccomandazioni dei VIP (Claudio Bisio, Massimo Cacciari, Ottavia Piccolo, Massimo Moratti e molti altri). Proprio questa, insieme a una ventina di pagine di ghiotte anticipazioni su Expo 2015, è la parte più interessante e originale della guida, mentre il resto dei contenuti, per quanto enciclopedico, segna inevitabilmente il passo nei confronti delle controparti web aggiornate in tempo reale.

Lo sforzo di catalogazione è comunque imponente: 620 ristoranti e pizzerie suddivisi in cinque zone (Nord, Sud, Est, Ovest e Centro), 140 ristoranti etnici, 70 locali per aperitivi ed enoteche, 80 negozi di specialità gastronomiche. Gli indici tematici un po' aiutano, ma un certo sforzo è richiesto anche al lettore visto che nel mare magnum c'è proprio di tutto: dal ristorante stellato al take away, passando per i rappresentanti di quelle "nuove tendenze" descritte nell'introduzione di Carlo Annovazzi come l'apertura a orario continuato e lo street food, che per la verità a Milano si vedono ancora troppo poco. Quello che proprio non riusciamo a comprendere e tantomeno a perdonare alla guida di Repubblica è l'assenza di una mappa dei ristoranti: in tempi di smartphone e di ossessiva geolocalizzazione, più che una banale svista ci sembra un delitto capitale.
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Osti sull'orlo di una crisi di nervi

Il libro di Valerio Massimo Visintin ha un solo, gravissimo difetto: è praticamente perfetto. Difficile non condividere punto per punto e pagina per pagina le osservazioni del celebre critico del “Corriere della Sera” e di “ViviMilano”, impossibile non farsi strappare una risata da qualcuna delle sue velenose frecciate; al massimo si potrebbe dubitare del suo piglio moralista tanto esasperato da apparire talvolta naïf, ma sinceramente è arduo tacciare di ingenuità un autore che si presenta alle proprie conferenze stampa con tanto di passamontagna e cappello nero (anche in piena estate) per nascondere le sue fattezze. La verità è che Visintin – con tutte le “i” al loro posto – sa scrivere, e bene, ma sa allo stesso tempo creare e alimentare il suo personaggio di incorruttibile censore delle vicende della ristorazione milanese, e dei suoi cantori. Il segreto del suo successo è, al tempo stesso, la sua condanna: aver scelto una nicchia iperlocale e insieme globalizzata, quella della cerchia dei Navigli, che come abbiamo più volte denunciato costituisce una sorta di girone infernale per i gastroamatori. Un calderone che raccoglie probabilmente molti pregi, ma sicuramente tutti i difetti del mondo del “fooding” italiano; e Visintin li smaschera implacabilmente, talvolta con un certo spirito vendicativo alla V per Vendetta (appunto), a volte invece con genuino rimpianto nei confronti di una Milano del passato raccontata per anni dal padre, anch’egli giornalista del Corriere. E il risultato finale, per quanto ridotto nelle dimensioni, è davvero un indispensabile vademecum per chiunque voglia guardare con occhi disincantati a un mondo troppo spesso idealizzato anche da chi lo racconta.

Osti sull’orlo di una crisi di nervi” (pubblicato da Terre di Mezzo, 136 pagine per 10 euro) è in massima parte un florilegio di post già pubblicati sul blog che Visintin tiene dal 2009, ma può essere consigliato anche ai più affezionati lettori del medesimo blog, che apprezzeranno i pochi ma godibilissimi scritti inediti. Efficace, del resto, è anche la selezione operata dall’autore, che riesce a condensare in poche righe i temi dominanti della scena culinaria nazionale. Brevissimo ma emblematico il capitolo d’apertura, dedicato al cavallo di battaglia del critico meneghino: l’anonimato del recensore, che a giudizio di Visintin non deve mai intrattenere rapporti di conoscenza o tantomeno di amicizia con ristoratori e cuochi che siano oggetto del suo lavoro, onde evitare inestricabili conflitti d’interesse. Magari si può discutere sull’intransigenza estremista dell’autore, ma certo è difficile dargli torto sul principio, in un settore – e in un paese – in cui anche quella che dovrebbe essere pura informazione di servizio è spesso considerata come un favore (o uno sgarbo) personale. Tanto più che, sostiene Visintin, restare anonimi al ristorante è facilissimo, fatta salva qualche acrobazia per prendere nascostamente appunti; assai più difficile, invece, arrampicarsi sui proverbiali vetri per giustificare critiche immancabilmente all’acqua di rose e marchette travestite da recensioni.

Rotto il ghiaccio con questo elogio dell’incognito (che compare pure nel sottotitolo del volume), l’autore si scatena e dà fondo a tutto il suo repertorio, demolendo la presunta “alta cucina” e la vuota arroganza dei cuochi stellati, sferzando i ristoratori improvvisati o imbroglioni, accanendosi sui sommelier e persino sugli amici che hanno avuto l’ardire di invitarlo a cena. L’acme del sarcasmo, Visintin lo riserva naturalmente ai colleghi: i critici da guida gastronomica in delirio di onnipotenza, ma anche Lonely Planet e Trip Advisor, i protagonisti dei cooking show televisivi e i foodblogger, rei di essersi fatti trascinare nello stesso mondo di frivolezze e cortesie reciproche in cui da anni sguazza la stampa di settore. Insomma, ce n’è per tutti ed è inevitabile un vago senso di colpa per essersi macchiati, presto o tardi, di almeno una delle colpe individuate dall’inflessibile inquisitore. Il gusto demolitore del critico sconfinerebbe anche nella presunzione, se non fosse per l’ironia e l’autoironia che permeano ogni singola riga del libro, restituendogli la sua dimensione di arguta e semiseria raccolta di riflessioni. E se non fosse perché sappiamo che Visintin, da sincero innamorato del cibo e del giornalismo, ha anche qualcosa di buono da raccontare...

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