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Nella botte grande c'è il vino buono

Alla fine, il vino trionfa sempre. La crisi incombente e un certo malumore serpeggiante nel settore dopo gli scandali (o presunti tali) dello scorso anno non hanno danneggiato, almeno in apparenza, il più grande appuntamento enologico al mondo: il Vinitaly 2009 si è chiuso tra i sorrisi, sia pure spenti nella giornata di chiusura dalle tragiche notizie provenienti dall’Abruzzo, e con un bilancio tutto sommato rassicurante (vedi anche questo interessante articolo in merito).
Alla vigilia di questa edizione si era parlato di controlli più rigidi per limitare l’ingresso agli addetti ai lavori ed evitare lo sbarco in massa di “turisti del vino” e molesti beoni; se il proposito degli organizzatori sia diventato realtà è difficile dirlo, fatto sta che il numero dei visitatori non ne ha risentito, superando secondo le prime stime i fatidici 150.000 fatti registrare nel 2008. Merito soprattutto degli stranieri, che sono accorsi in 45.000: quasi uno su tre. Numeri record anche per gli espositori, oltre 4.200 provenienti da 30 paesi, e per i giornalisti, più di 2.400.

Come tutte le grandi opere d’arte, anche il Vinitaly si presta a più livelli di lettura: dal semplice appassionato al rivenditore, dal viticultore al sommelier di professione, ognuno trova nella kermesse veronese spunti diversi e diverse sfaccettature. Il primo ostacolo da superare, però, è lo stesso per tutti: la consapevolezza che non soltanto nei 5 giorni di fiera, ma neppure nel corso di un’intera vita sarà possibile assaggiare i prodotti di tutte le cantine presenti! Quella che colpisce all’ingresso di Veronafiere è una sensazione di stordimento mista a parziale delusione: ci si rende conto da subito che bisognerà operare una selezione drastica, arbitraria e spesso affidata a fattori del tutto casuali. Persino l’iniziale proposito di degustare almeno un vino per ogni regione italiana è destinato a crollare: le regioni sono 20 e arrivare alla fine in una sola giornata è molto difficile, anche soltanto per motivi di tempo. C’è poi il discorso sobrietà: è noto che i veri esperti sputano il vino a fine degustazione per mantenersi lucidi, ma è altrettanto noto che noi non siamo veri esperti, e il sillogismo si completa facilmente…
La verità è questa: Vinitaly è un labirinto colmo di trabocchetti per il visitatore incauto, un po’ come ogni altra fiera, ma con l’aggravante dell’immensità (91.000 metri quadrati!). Chi si lascia attirare dalle sirene dei grandi marchi non ne coglie la vera essenza, chi va alla ricerca di sapori sconosciuti rischia di non gustare i prodotti di eccellenza. Il dispiacere di non poter dedicare a ciascuna realtà professionale il tempo che meriterebbe per apprezzare appieno il lavoro, la dedizione e le storie spesso singolari che stanno dietro a ogni singola etichetta, si mescola al gusto della curiosità e della scoperta, esercitato anche nelle tante degustazioni gratuite organizzate dai consorzi e dalle organizzazioni di settore. Comunque vada, insomma, si esce insoddisfatti ma felici.
Riepilogare qui il nostro accidentato e schizofrenico percorso tra i padiglioni sarebbe inutile, oltre che impossibile: ci limitiamo, come già lo scorso anno, a offrirvi un breve campionario dei vini che hanno solleticato maggiormente i nostri sensi… e vi invitiamo a fare altrettanto!

Braida – Rocchetta Tanaro (AT): Non ha bisogno di presentazioni una delle più note etichette piemontesi, fra le prime a rivalutare il Barbera. Resa famosa dal celeberrimo Bricco dell’Uccellone, oggi la cantina affianca ai vini storici anche novità molto interessanti come il Barbera Montebruna e il bianco Asso di Fiori, un Langhe Chardonnay affinato in botte e in bottiglia.

Cave du Vin Blanc – Morgex (AO): I vigneti più alti d’Europa, fino a 1200 metri, danno origine a sapori introvabili altrove. Ottimo il bianco Estremi, prodotto nelle stesse condizioni di vinificazione dell’Ottocento; ma davvero superlativo è il Chaudelune, forse il vino più originale provato in tutta la rassegna, un indescrivibile mix di aromi e note fruttate che lascia senza parole.

Vallerosa Bonci - Cupramontana (AN): Davvero uno dei migliori vini assaggiati il Verdicchio di questa azienda marchigiana. Nella vasta produzione spiccano il Pietrone, affinato in cemento e in bottiglia, e soprattutto il San Michele, premiato dalla guida Vini d’Italia con il prestigioso riconoscimento dei Tre Bicchieri.

Cantina Goretti – Perugia: Azienda molto nota in Umbria che produce almeno due vini di eccellente qualità, ma di caratteristiche molto diverse. L’Arringatore è un rosso di carattere robusto e inconfondibile da uve Sangiovese, Merlot e Ciliegiolo di Pila; Le Mura Saracene viene dal vitigno locale Sagrantino di Montefalco ed è decisamente più aromatico e complesso.

Ippolito 1845 – Cirò Marina (KR): Azienda ricchissima di storia (è la più antica dell’intera Calabria) che deve le sue fortune al vitigno locale: il Cirò Rosso Classico Superiore si fa apprezzare sia nella variante Liber Pater che nella riserva Colli del Mancuso, affinata 12 mesi in barrique.

Pileum – Piglio (FR): Pochi conoscono il Cesanese del Piglio, diventato DOCG soltanto nel 2008 (è la prima del Lazio); un vino che merita di essere scoperto per il suo gusto vellutato e la bassissima acidità. Anche questa azienda è giovanissima, ma produce già ottime etichette tra cui il Bolla di Urbano.

Al-Cantàra – Catania: Etichette di grande pregio artistico grazie alle opere di Alfredo Guglielmino di Cartura, nomi fitti di rimandi letterali, ma quello che c’è dentro la bottiglia non è da meno. Su tutti il bianco Luci Luci, dal vitigno Carricante, e il passito Lu Disìu.

Vini Mastrangelo – Vasto (CH): Da dieci e lode la Riserva del Vicario, un Montepulciano d’Abruzzo intenso e speziato; ma anche il più leggero Alma Dei non è da meno. Una menzione infine per il bianco Nuntius, un robusto Pecorino.

Pietrasanta – San Colombano al Lambro (MI): Uno dei principali produttori del San Colombano, unica DOCG della provincia di Milano, spesso considerato vino “da tavola” che rivela però insospettabili doti aromatiche se invecchiato. Lo dimostra ad esempio il San Colombano 2003 Riserva, affinato in barrique per 24 mesi.

Calafè – Pratola Serra (AV): Due vitigni per quattro etichette: il rosso Aglianico e il bianco Greco di Tufo. La riserva di quest’ultimo si chiama Ariavecchia e mette in evidenza il caratteristico aroma di mandorla.

Monte delle Vigne – Ozzano Taro (PR): Già il nome dice tutto: qui si produce vino da secoli. Non solo rosso (Barbera, Bonarda, Lambrusco) ma anche e soprattutto ottimi bianchi tra i quali spicca quello dedicato alla “Divina” Maria Callas, una Malvasia di Candia Aromatica.

Mazzone – Ruvo di Puglia (BA): Una Malvasia come l’Immensus non l’avevamo mai assaggiata: per nulla dolce, di sapore fresco e asciutto, quasi irriconoscibile. Buono anche il Nero di Troia.

Barone Montalto – Santa Ninfa (TP): L’azienda è giovane ma ha già un ricco campionario di vini; interessante il Cataratto Chardonnay.

Distilnatura – Somma Vesuviana (NA): Nulla a che fare col vino, in compenso quest’azienda produce un’incredibile quantità di liquori e distillati: dal pistacchio al lampone, dalle mandorle al basilico… Eccellente la Crema melone e ottimi anche i babà al rum offerti dalla casa!
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Bicchieri mezzi vuoti?

Crisi o non crisi? Pare che il settore della birra artigianale, perlomeno nei limiti di una situazione economica globale tutt'altro che incoraggiante, resista ancora abbastanza bene. Non è andata nel migliore dei modi, al contrario, l'edizione milanese del rinnovato Italia Beer Festival: se non si trattasse di birra, potremmo tranquillamente parlare di un fiasco. Il crollo dei visitatori (addirittura il 50% in meno) è un dato allarmante: solo il tempo, e le successive tappe della manifestazione, diranno se alla base di queste cifre c'è un generico calo dei consumi oppure qualche errore strategico nell'impostare l'evento. La nostra impressione è che lo spostamento della fiera al Palalido, il venir meno dell'abbinamento con il salone del fumetto Cartoomics e qualche assenza di rilievo tra gli espositori abbiano avuto il loro peso.
Questa doverosa premessa non deve però ingannare: chi all'Italia Beer Festival ci è andato, ha vissuto la consueta esperienza gradevole e gratificante, grazie anche ai corsi e alle degustazioni guidate organizzate dall'Associazione Degustatori Birra. I visitatori hanno anche potuto toccare con mano (o quantomeno con bocca) la vivacità del settore, grazie alla presenza di numerose nuove etichette, molte delle quali nate e cresciute negli ultimi mesi. E' il caso, per esempio, del birrificio Toccalmatto, aperto soltanto nel novembre 2008 a Fidenza, ma già in grado di offrire prodotti di altissimo livello grazie al coinvolgimento di un nome noto dell'homebrewing, quello di Andrea Paini. Altre novità di questa edizione: la birra salentina del Birrificio B94, che ha presentato tra l'altro l'eccezionale robust porter etichettata con il nome di Porteresa, e la toscana Birra Amiata. Quest'ultima merita una menzione particolare per la sua premiatissima Bastarda Rossa, una birra speciale alla castagna dal gusto pieno e dall'aroma fruttato, presente anche in versione più "strong" con il nome di Bastarda Doppia. Citiamo poi in ordine sparso altri produttori meritevoli: il già noto Birrificio Doppio Malto di Erba (CO) con le sue ottime Oak Pils e Brass Weiss; i campani del Saint Jonh's Bier che hanno presentato il nuovo marchio LA Birra Artigianale; il piccolo birrificio Henquet di Ovada, in provincia di Alessandria. Molto diversi tra loro i due rappresentanti del Friuli, entrambi dalla provincia di Pordenone: la variegata produzione del Birrificio di Meni, con sei birre annuali e quattro stagionali (ottima l'ambrata Comatârs), si contrappone all'offerta ridotta ai minimi termini del birrificio Praforte, la cui rossa si è però aggiudicata addirittura il secondo posto assoluto nella classifica delle migliori birre del festival.

Il primo premio, assegnato da una giuria di 11 degustatori, è andato all'ormai noto Birrificio Bi-Du di Rodero (Como) con la sua ArtigianAle. E proprio alla formula del Bi-Du dev'essersi ispirato anche il Docks di Rivergaro, in provincia di Piacenza: un altro birrificio con mescita e vendita diretta che unisce al pub anche una pizzeria e una griglieria. Infine, da segnalare l'esperimento tentato a Roma da Birradamare: dopo aver lanciato il Birrificio Artigianale Ostiense, ora Elio Miceli e Massimo Salvatori ci riprovano con il marchio 'na biretta, che contraddistingue una nuova birra artigianale distribuita (per il momento) solo in bottiglia. Chiara, leggera e aromatica, la "biretta" ha tutte le carte in regola per il successo, che gli auguriamo.
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Chi beve birra campa cent'anni

Fino allo scorso anno si chiamava Salone della Birra Artigianale e di Qualità (qui il reportage dell'edizione 2008), ora è più semplicemente Italia Beer Festival: al di là della diversa denominazione, non cambia il concetto della più importante manifestazione nazionale dedicata alla birra. Quest'anno, il salone si svolgerà a Milano da venerdì 20 a lunedì 23 marzo, ma soprattutto per la prima volta toccherà altre 4 città italiane: Roma (17-19 aprile), Alessandria (22-24 maggio), Brescia (date da definire) e Padova (6-8 novembre). L'appuntamento clou rimane comunque quello in programma nel capoluogo lombardo che, per l'occasione, si sposta dalla tradizionale sede fieristica all'accogliente Palalido di piazzale Stuparich.
Come sempre il cuore della manifestazione è l'esposizione di birre artigianali, un settore in costante crescita anche nel nostro paese: quest'anno sono 30 i birrifici partecipanti, a cui si aggiungeranno gli espositori di attrezzature e alcuni graditi ospiti come i produttori di cioccolato. Nel corso dell'evento sarà premiata (domenica 22 marzo alle 18) la miglior birra del festival e verranno organizzati laboratori di assaggio e degustazioni guidate; sempre aperti, inoltre i due ristoranti con panini di qualità e specialità argentine.
Tra le iniziative collaterali, il Campionato Italiano Degustatori (domenica alle 16) e un angolo dedicato allo sport, con la Coppa Lombardia di freccette e il Carrom, gioco indiano simile al biliardo.
Il biglietto d'ingresso costa 8 euro, comprensivo di bicchiere da degustazione, mentre l'abbonamento per 2 giorni è in vendita a 14 euro e quello per 3 giorni a 18 euro.
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Il dilemma dell'onnivoro

Se ci sono voluti quasi sei mesi per recensire questo libro di Michael Pollan, non lo si deve soltanto alla nostra inveterata pigrizia. Il fatto è che risulta davvero difficile decidere da che parte iniziare a descrivere, o anche soltanto a classificare, un’opera tanto ricca di spunti di riflessione, dibattito e analisi che toccano in profondità l’oggetto del nostro lavoro e della nostra passione: il cibo.
“Il dilemma dell’onnivoro” è, prima di tutto, una lucida e obiettiva inchiesta sui processi produttivi del cibo nella nostra epoca, ma è anche un saggio critico che non si astiene da giudizi, proposte, speranze e utopie per il futuro della nostra alimentazione; è una leggera ma acuta riflessione filosofica sullo strettissimo rapporto (materiale e immateriale) che ci lega alle sostanze di cui ci nutriamo; è, per finire, una concreta esposizione, non viziata dai consueti toni apocalittici e da prese di posizione aprioristiche, delle ragioni per le quali il modello di sviluppo praticato nel mondo occidentale non è, alla lettera, “sostenibile” dalla nostra civiltà. Sotto quest’ultimo aspetto, il libro si sarebbe potuto intitolare senza scandalo “L’uomo è una locusta”, vista la pertinenza con cui affronta la tematica dell’insensato dispendio (e spreco) di risorse che caratterizza l’agricoltura e l’allevamento, ma non solo, nell’epoca contemporanea.

Tutto ciò non deve far pensare al libro di Pollan, edito da Adelphi (488 pagine, 28 euro) nella bella traduzione di Luigi Civalleri, come a una lettura difficile o di registro eccessivamente “elevato”: tutt’altro. Il tono colloquiale e scanzonato scelto dall’autore, insieme alla periodizzazione vivace e mai ingarbugliata, garantiscono una lettura scorrevole anche nei passi più ostici; anzi, a sprazzi le pagine di Pollan soffrono forse di una nota di eccessiva ingenuità che spesso caratterizza la saggistica statunitense… ma sono solo brevi passaggi a vuoto a fronte di un’analisi in cui l’autore, collaboratore del "New York Times Magazine" e professore di giornalismo a Berkeley, non tira mai indietro la penna anche davanti a problematiche ampie e complesse che lambiscono i confini della psicologia e della chimica, dell’antropologia e della microeconomia.

Il volume, che si apre con una breve introduzione dal sintomatico titolo “Il disordine alimentare americano”, è diviso in tre parti ben distinte. La prima è “La catena industriale: l’impero del mais”, certamente la più interessante per la sua capacità di analizzare ed esplicitare nei minimi dettagli una situazione pressoché sconosciuta alla gran parte degli osservatori, distratti o disinformati. In pratica, Pollan descrive e stigmatizza la pervasività della coltura del mais, divenuta ormai la coltivazione quasi monopolistica in tutti i terreni degli Stati Uniti, e la sua presenza sempre più massiccia nell’alimentazione americana (ma non solo) sotto le forme più diverse. Il dominio del granturco è tale che l’autore arriva al paradosso di definire la specie umana “un sottoprodotto lavorato del mais con le gambe”. Naturalmente non manca un articolato esame delle cause di questo fenomeno e delle sue gravi conseguenze. C’è proprio tutto, dalla distruzione delle piccole economie rurali all’improprio utilizzo del mais in eccesso, dal “riadattamento” dei bovini costretti a nutrirsi di proteine fino agli estremi sviluppi: la diffusione dell’alimentazione da fast food e i conseguenti disturbi alimentari di buona parte della popolazione nordamericana. È indubbio che scaturiscano da queste pagine le immagini più forti del libro e le riflessioni più concrete sugli errori, e sugli orrori, delle politiche alimentari delle nazioni industrializzate nell’ultimo secolo. Particolarmente toccanti, a vari livelli, i paragrafi in cui l’autore “adotta” un vitello neonato per seguirne il percorso dallo svezzamento alla macellazione, rivelando i guasti di un sistema tanto disumano quanto inefficiente.
Non così incisiva la seconda parte, intitolata “La catena pastorale: l’erba”. La tematica più ostica, la forte presenza di tecnicismi e i toni talvolta eccessivamente utopistici rendono meno appassionanti queste pagine; soprattutto, mentre per qualunque lettore è facile identificarsi nel consumatore vessato e tradito dalla grande industria, non è altrettanto semplice simpatizzare con l’autore quando lamenta i problemi dell’agricoltura biologica che, con i suoi metodi da grande distribuzione, finisce per essere soltanto un duplicato di quella “ufficiale”, rivelandosi quasi altrettanto dannosa per l’ambiente e poco conveniente dal punto di vista economico. La soluzione proposta (riscoperta delle fattorie, dei macelli “artigianali”, dei mercatini rionali) è affascinante, ma la sua applicazione su larga scala non convince poi troppo; va detto, peraltro, che prima di aderirvi lo stesso Pollan si è sottoposto a una massacrante settimana di lavoro nell’azienda agricola Polyface spalando letame e sgozzando polli, il che rende decisamente più credibili le sue argomentazioni.
La catena personale: il bosco”, terza e ultima parte, è senz’altro la più debole sul piano dell’analisi. L’idea di realizzare una cena “fatta in casa” contando solo sui prodotti della caccia e della raccolta, e quindi su maiali selvatici, funghi e vegetali che Pollan si è procurato personalmente, sembra più un gioco che una seria alternativa di consumo, anche se si percepisce chiaramente il divertimento sperimentato dall’autore nel metterla in pratica! In compenso però è proprio qui che si trovano gli spunti teorici più interessanti di tutto il libro: dal valore culturale del cibo all’importanza dell’invenzione della cottura, fino all’imperdibile capitolo “Il problema etico del mangiare carne” in cui vengono affrontate senza remore le ragioni del vegetarianesimo.
Si termina la lettura lievemente sconcertati dal volume di informazioni ricevute, anche perché la sterminata bibliografia del volume lascia intendere innumerevoli possibilità di approfondimento. Ma una cosa è certa: nella misura in cui riesce a regalare una presa di coscienza, sia pure tenue, dell’importanza di ciò che mangiamo e di come lo mangiamo, questo libro merita senza alcun dubbio di essere letto e “digerito”, anche dopo sei mesi.
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Aspettando Ora ProSciutto

In anticipo di un mesetto sulla grande festa Ora ProSciutto, le Locuste si mettono alla prova a Tromello con una "bestia" da 11 kg (22 novembre 2008). Ecco le prove fotografiche


Lo chef al lavoro per il suo piatto più riuscito


Undici chili di bontà


Scalpellini in attività


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