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Osti sull'orlo di una crisi di nervi

Il libro di Valerio Massimo Visintin ha un solo, gravissimo difetto: è praticamente perfetto. Difficile non condividere punto per punto e pagina per pagina le osservazioni del celebre critico del “Corriere della Sera” e di “ViviMilano”, impossibile non farsi strappare una risata da qualcuna delle sue velenose frecciate; al massimo si potrebbe dubitare del suo piglio moralista tanto esasperato da apparire talvolta naïf, ma sinceramente è arduo tacciare di ingenuità un autore che si presenta alle proprie conferenze stampa con tanto di passamontagna e cappello nero (anche in piena estate) per nascondere le sue fattezze. La verità è che Visintin – con tutte le “i” al loro posto – sa scrivere, e bene, ma sa allo stesso tempo creare e alimentare il suo personaggio di incorruttibile censore delle vicende della ristorazione milanese, e dei suoi cantori. Il segreto del suo successo è, al tempo stesso, la sua condanna: aver scelto una nicchia iperlocale e insieme globalizzata, quella della cerchia dei Navigli, che come abbiamo più volte denunciato costituisce una sorta di girone infernale per i gastroamatori. Un calderone che raccoglie probabilmente molti pregi, ma sicuramente tutti i difetti del mondo del “fooding” italiano; e Visintin li smaschera implacabilmente, talvolta con un certo spirito vendicativo alla V per Vendetta (appunto), a volte invece con genuino rimpianto nei confronti di una Milano del passato raccontata per anni dal padre, anch’egli giornalista del Corriere. E il risultato finale, per quanto ridotto nelle dimensioni, è davvero un indispensabile vademecum per chiunque voglia guardare con occhi disincantati a un mondo troppo spesso idealizzato anche da chi lo racconta.

Osti sull’orlo di una crisi di nervi” (pubblicato da Terre di Mezzo, 136 pagine per 10 euro) è in massima parte un florilegio di post già pubblicati sul blog che Visintin tiene dal 2009, ma può essere consigliato anche ai più affezionati lettori del medesimo blog, che apprezzeranno i pochi ma godibilissimi scritti inediti. Efficace, del resto, è anche la selezione operata dall’autore, che riesce a condensare in poche righe i temi dominanti della scena culinaria nazionale. Brevissimo ma emblematico il capitolo d’apertura, dedicato al cavallo di battaglia del critico meneghino: l’anonimato del recensore, che a giudizio di Visintin non deve mai intrattenere rapporti di conoscenza o tantomeno di amicizia con ristoratori e cuochi che siano oggetto del suo lavoro, onde evitare inestricabili conflitti d’interesse. Magari si può discutere sull’intransigenza estremista dell’autore, ma certo è difficile dargli torto sul principio, in un settore – e in un paese – in cui anche quella che dovrebbe essere pura informazione di servizio è spesso considerata come un favore (o uno sgarbo) personale. Tanto più che, sostiene Visintin, restare anonimi al ristorante è facilissimo, fatta salva qualche acrobazia per prendere nascostamente appunti; assai più difficile, invece, arrampicarsi sui proverbiali vetri per giustificare critiche immancabilmente all’acqua di rose e marchette travestite da recensioni.

Rotto il ghiaccio con questo elogio dell’incognito (che compare pure nel sottotitolo del volume), l’autore si scatena e dà fondo a tutto il suo repertorio, demolendo la presunta “alta cucina” e la vuota arroganza dei cuochi stellati, sferzando i ristoratori improvvisati o imbroglioni, accanendosi sui sommelier e persino sugli amici che hanno avuto l’ardire di invitarlo a cena. L’acme del sarcasmo, Visintin lo riserva naturalmente ai colleghi: i critici da guida gastronomica in delirio di onnipotenza, ma anche Lonely Planet e Trip Advisor, i protagonisti dei cooking show televisivi e i foodblogger, rei di essersi fatti trascinare nello stesso mondo di frivolezze e cortesie reciproche in cui da anni sguazza la stampa di settore. Insomma, ce n’è per tutti ed è inevitabile un vago senso di colpa per essersi macchiati, presto o tardi, di almeno una delle colpe individuate dall’inflessibile inquisitore. Il gusto demolitore del critico sconfinerebbe anche nella presunzione, se non fosse per l’ironia e l’autoironia che permeano ogni singola riga del libro, restituendogli la sua dimensione di arguta e semiseria raccolta di riflessioni. E se non fosse perché sappiamo che Visintin, da sincero innamorato del cibo e del giornalismo, ha anche qualcosa di buono da raccontare...

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