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Il dilemma dell'onnivoro

Pubblicato Domenica, 11 Gennaio 2009 16:54
Se ci sono voluti quasi sei mesi per recensire questo libro di Michael Pollan, non lo si deve soltanto alla nostra inveterata pigrizia. Il fatto è che risulta davvero difficile decidere da che parte iniziare a descrivere, o anche soltanto a classificare, un’opera tanto ricca di spunti di riflessione, dibattito e analisi che toccano in profondità l’oggetto del nostro lavoro e della nostra passione: il cibo.
“Il dilemma dell’onnivoro” è, prima di tutto, una lucida e obiettiva inchiesta sui processi produttivi del cibo nella nostra epoca, ma è anche un saggio critico che non si astiene da giudizi, proposte, speranze e utopie per il futuro della nostra alimentazione; è una leggera ma acuta riflessione filosofica sullo strettissimo rapporto (materiale e immateriale) che ci lega alle sostanze di cui ci nutriamo; è, per finire, una concreta esposizione, non viziata dai consueti toni apocalittici e da prese di posizione aprioristiche, delle ragioni per le quali il modello di sviluppo praticato nel mondo occidentale non è, alla lettera, “sostenibile” dalla nostra civiltà. Sotto quest’ultimo aspetto, il libro si sarebbe potuto intitolare senza scandalo “L’uomo è una locusta”, vista la pertinenza con cui affronta la tematica dell’insensato dispendio (e spreco) di risorse che caratterizza l’agricoltura e l’allevamento, ma non solo, nell’epoca contemporanea.

Tutto ciò non deve far pensare al libro di Pollan, edito da Adelphi (488 pagine, 28 euro) nella bella traduzione di Luigi Civalleri, come a una lettura difficile o di registro eccessivamente “elevato”: tutt’altro. Il tono colloquiale e scanzonato scelto dall’autore, insieme alla periodizzazione vivace e mai ingarbugliata, garantiscono una lettura scorrevole anche nei passi più ostici; anzi, a sprazzi le pagine di Pollan soffrono forse di una nota di eccessiva ingenuità che spesso caratterizza la saggistica statunitense… ma sono solo brevi passaggi a vuoto a fronte di un’analisi in cui l’autore, collaboratore del "New York Times Magazine" e professore di giornalismo a Berkeley, non tira mai indietro la penna anche davanti a problematiche ampie e complesse che lambiscono i confini della psicologia e della chimica, dell’antropologia e della microeconomia.

Il volume, che si apre con una breve introduzione dal sintomatico titolo “Il disordine alimentare americano”, è diviso in tre parti ben distinte. La prima è “La catena industriale: l’impero del mais”, certamente la più interessante per la sua capacità di analizzare ed esplicitare nei minimi dettagli una situazione pressoché sconosciuta alla gran parte degli osservatori, distratti o disinformati. In pratica, Pollan descrive e stigmatizza la pervasività della coltura del mais, divenuta ormai la coltivazione quasi monopolistica in tutti i terreni degli Stati Uniti, e la sua presenza sempre più massiccia nell’alimentazione americana (ma non solo) sotto le forme più diverse. Il dominio del granturco è tale che l’autore arriva al paradosso di definire la specie umana “un sottoprodotto lavorato del mais con le gambe”. Naturalmente non manca un articolato esame delle cause di questo fenomeno e delle sue gravi conseguenze. C’è proprio tutto, dalla distruzione delle piccole economie rurali all’improprio utilizzo del mais in eccesso, dal “riadattamento” dei bovini costretti a nutrirsi di proteine fino agli estremi sviluppi: la diffusione dell’alimentazione da fast food e i conseguenti disturbi alimentari di buona parte della popolazione nordamericana. È indubbio che scaturiscano da queste pagine le immagini più forti del libro e le riflessioni più concrete sugli errori, e sugli orrori, delle politiche alimentari delle nazioni industrializzate nell’ultimo secolo. Particolarmente toccanti, a vari livelli, i paragrafi in cui l’autore “adotta” un vitello neonato per seguirne il percorso dallo svezzamento alla macellazione, rivelando i guasti di un sistema tanto disumano quanto inefficiente.
Non così incisiva la seconda parte, intitolata “La catena pastorale: l’erba”. La tematica più ostica, la forte presenza di tecnicismi e i toni talvolta eccessivamente utopistici rendono meno appassionanti queste pagine; soprattutto, mentre per qualunque lettore è facile identificarsi nel consumatore vessato e tradito dalla grande industria, non è altrettanto semplice simpatizzare con l’autore quando lamenta i problemi dell’agricoltura biologica che, con i suoi metodi da grande distribuzione, finisce per essere soltanto un duplicato di quella “ufficiale”, rivelandosi quasi altrettanto dannosa per l’ambiente e poco conveniente dal punto di vista economico. La soluzione proposta (riscoperta delle fattorie, dei macelli “artigianali”, dei mercatini rionali) è affascinante, ma la sua applicazione su larga scala non convince poi troppo; va detto, peraltro, che prima di aderirvi lo stesso Pollan si è sottoposto a una massacrante settimana di lavoro nell’azienda agricola Polyface spalando letame e sgozzando polli, il che rende decisamente più credibili le sue argomentazioni.
La catena personale: il bosco”, terza e ultima parte, è senz’altro la più debole sul piano dell’analisi. L’idea di realizzare una cena “fatta in casa” contando solo sui prodotti della caccia e della raccolta, e quindi su maiali selvatici, funghi e vegetali che Pollan si è procurato personalmente, sembra più un gioco che una seria alternativa di consumo, anche se si percepisce chiaramente il divertimento sperimentato dall’autore nel metterla in pratica! In compenso però è proprio qui che si trovano gli spunti teorici più interessanti di tutto il libro: dal valore culturale del cibo all’importanza dell’invenzione della cottura, fino all’imperdibile capitolo “Il problema etico del mangiare carne” in cui vengono affrontate senza remore le ragioni del vegetarianesimo.
Si termina la lettura lievemente sconcertati dal volume di informazioni ricevute, anche perché la sterminata bibliografia del volume lascia intendere innumerevoli possibilità di approfondimento. Ma una cosa è certa: nella misura in cui riesce a regalare una presa di coscienza, sia pure tenue, dell’importanza di ciò che mangiamo e di come lo mangiamo, questo libro merita senza alcun dubbio di essere letto e “digerito”, anche dopo sei mesi.