Il paradosso di Farinetti
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- Pubblicato Mercoledì, 31 Ottobre 2012 15:00
Dopo la legge di Murphy e la congettura di Fibonacci, eccolo qua il paradosso di Farinetti: tutelare i piccoli produttori attraverso la grande distribuzione. Si può? Si deve, secondo il vulcanico imprenditore piemontese, l’uomo che vendette UniEuro per fondare Eataly, la catena di distribuzione d’eccellenza (e per eccellenza). Sulla scorta del suo esempio, ma anche della crisi galoppante e di una sempre maggiore consapevolezza dei consumatori, in molti stanno cercando una ricetta per uscire dalla dominante standardizzazione dei prodotti e dalla corsa al sottocosto. Se ne è parlato durante il Salone del Gusto di Torino, in una gremita Sala Gialla, nel corso della conferenza “Ripensare la grande distribuzione: è possibile?”. Ospiti, tra gli altri, lo stesso Oscar Farinetti e il presidente di Coldiretti Sergio Marini, ma anche Vincenzo Tassinari (COOP), Fabio Sordi (Auchan), Lorette Picciano della Rural Coalition, associazione di piccoli agricoltori USA, e Hugo Valdes di Cooperativas Sin Fronteras, che ha contribuito a lanciare in tutto il mondo il commercio equo e solidale. La formula vincente la trova il moderatore Bruno Scaltritti (dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo), che descrive la distribuzione alimentare come una “clessidra”: da una parte c’è la galassia dei produttori, dall’altra un numero sterminato di negozi e di consumatori, in mezzo il “restringimento” dei centri d’acquisto. Come superarlo?
Di risposte definitive in questo senso, com’era prevedibile, non ne arrivano. Di suggestioni però sì, e tante. Le più provocatorie sono come sempre quelle di Farinetti: “Questa crisi è proprio quello che ci voleva, ci aiuterà a volare più basso e a essere più umani. Verità e semplicità sono il marketing migliore”. E poi, più pacatamente: “La distribuzione degli ultimi trent’anni ha puntato sempre sui prezzi bassi e mai sul racconto del prodotto. Tutti gli altri beni, dai cellulari alle automobili, si vendono perché sono stati caricati di valore immateriale: solo col cibo non siamo stati capaci di farlo. Ora è il momento della qualità: noi siamo orgogliosi di pagare le carni della Granda il 32% in più. Ed è anche il momento di andare all’estero, visto che il 22% dei cibi consumati in Italia è distribuito dai francesi, mentre noi ci scanniamo per un punto vendita a Cinisello Balsamo…”. Francesi, quindi Auchan. Che però, con Fabio Sordi, rivendica la propria italianità: “Noi vogliamo sostenere i produttori locali, non a caso abbiamo creato una linea ad hoc. Il nostro contributo serve ad aiutarli nell’esportazione, prima di tutto interna, tra le varie regioni d’Italia, e poi oltreconfine, dove potremmo vendere 10 volte tanto”. E Tassinari dice la sua per la COOP: “Siamo a un bivio per la grande distribuzione: prezzo basso a tutti i costi o un percorso legato ai valori? Noi puntiamo sulla seconda strada, la reputazione è importante. Non vogliamo più essere visti come chi fagocita i produttori, vogliamo collaborare con loro”.
Un tema forte è quello dell’identità: il nome del produttore deve comparire sull’etichetta, insieme alla storia e agli ingredienti del prodotto. Non come oltreoceano, dove – racconta Lorette Picciano – “gli ipermercati con i loro marchi hanno contribuito al declino delle comunità rurali. Dobbiamo creare un’alternativa e lottare per stabilire accordi favorevoli ai produttori e scavalcare il labeling attuato dalle grandi catene”. Sergio Marini è più esplicito che mai: “La strategia vincente è provare a raccontare la verità ai cittadini, solo così si aggiunge valore al cibo. Ci piacerebbe che nel momento in cui il prodotto arriva al consumatore finale si potesse chiarire chi e come lo ha coltivato o trasformato”. Anche se poi, soprattutto nei paesi meno sviluppati, c’è chi alla distribuzione non ci arriva nemmeno: “Il problema delle ingiustizie nel commercio non è risolto – dice Valdes – è insostenibile che un produttore riceva soltanto il 10% del valore finale del prodotto. Devono esserci norme molto chiare, fra cui quella sui prezzi minimi, e deve essere evitata la speculazione che decide i prezzi degli alimenti indipendentemente dalla produzione. Abbiamo ottenuto buoni risultati ma non possiamo accontentarci, dobbiamo avvicinarci sempre di più ai consumatori”. E ancora Farinetti chiude il cerchio ragionando sui massimi sistemi: “La civiltà dei consumi ha funzionato da Dio, oggi non funziona più perché è saltato un anello della catena: il lavoro. Dobbiamo mettere tutte le nostre energie sulla forza lavoro: basterebbe, per esempio, eliminare i diserbanti per raddoppiare immediatamente il numero di posti a disposizione. Poi, certo, bisognerà promuovere sul mercato le attività che scelgono questa via. Una proposta? Creiamo un marchio, una mela tricolore, che identifichi tutti i prodotti “puliti”. Vedrete che successo avrà”. E se lo dice lui, c’è da crederci…