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Saggi e assaggi

Pubblicato Lunedì, 30 Ottobre 2006 11:03
137mila visitatori in quattro giorni, e io (Navigatore Capo) c'ero!
Lo dico con un certo orgoglio, giustificato non tanto dalla mia semplice presenza al Lingotto di Torino, quanto dal fatto di essere sopravvissuto a un'intera giornata di assaggi e degustazioni (dalle 12.30 alle 20, più o meno) senza lasciarci la pelle e neppure il portafogli. Si potrebbero enumerare qui le incredibili specialità culinarie assaggiate senza soluzione di continuità, dalla mortadella di Prato alla mostarda di sedano, dalla confettura di arance e pompelmi al liquore di gianduia... ma la lista richiederebbe una settimana (come del resto avrebbe richiesto anche la visita).
Mi limito quindi a lasciare la parola a me stesso: qui sotto trovate il testo completo del mio articolo apparso su Lombardia Oggi con la recensione dell'evento.
In due parole questo il giudizio: una manifestazione superlativa. Pregi: l'incredibile varietà di prodotti, l'esposizione curata, la cortesia degli espositori. Difetti: le troppe degustazioni a pagamento e l'eccessivo miscuglio di sapori, che alla fine rischia di far perdere il senso del gusto (non si dica mai!).

SAPORI BUONI, PULITI E GIUSTI

"La nostra non è una visione arcaica, è una visione di estrema modernità. La dignità dell’economia locale è l’unica che ci consentirà di realizzare quello che sta diventando un ossimoro: sviluppo sostenibile".
Parole forti, fortissime quelle di Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, all’inaugurazione di Terra Madre, l’incontro mondiale delle comunità del cibo. Parole che danno un senso e una chiave di interpretazione a tutto l’immenso spettacolo del Salone del Gusto, manifestazione separata da Terra Madre, eppure inscindibile. Perché gli oltre 5000 delegati, provenienti da 150 paesi del mondo, che hanno affollato giovedì 26 ottobre la sala Oval al Lingotto di Torino, alla presenza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, sono simbolicamente fratelli dei coltivatori, degli allevatori, dei pasticcieri e degli artigiani che contemporaneamente animavano centinaia di stand gastronomici nei tre padiglioni della fiera.
Tra i corridoi del Salone del Gusto, dalla via dei Formaggi e Latticini fino a quella dei Dolci e degli Spiriti, il concetto di cibo “buono, pulito e giusto” si è materializzato davanti agli occhi dei visitatori (oltre 137.000, un record), incarnandosi in decine di prodotti unici al mondo, che è possibile gustare ancora oggi solo grazie alla passione e all’impegno di piccole e piccolissime aziende del settore. A sostenere, a loro modo, i valori dell’economia rurale tradizionale e della “globalizzazione intelligente” si sono presentati tutti: dai gelatai siciliani agli allevatori di polli olandesi, dai formaggiai del Lazio ai produttori di Canapu, una particolare varietà di fagiolo coltivato soltanto nel Nordest del Brasile.
Ognuno di questi artigiani ha un assaggio da proporre (spesso gratuito, anche se proliferano le degustazioni a pagamento, pur deplorate dagli organizzatori) e soprattutto una storia da raccontare: storie millenarie di tradizioni tramandate di generazione in generazione, ma anche piccoli episodi quotidiani che mettono in luce il rapporto, talvolta conflittuale, tra il moderno e l’antico. Così il mastro birraio di Casalpusterlengo lamenta il gusto standardizzato delle grandi marche di birra, mentre il salumiere del gruppo Alcisa di Bologna racconta come ancora oggi gli operai dello stabilimento facciano colazione ogni mattina con una fetta di mortadella, e con un pizzico di civetteria liquida chi la ritiene un cibo “povero”, ricordandone gli ingredienti selezionati (e costosi).
Ma il Salone del Gusto non è una manifestazione per snob della gastronomia: i profumi che rimbalzano da uno stand all’altro sono semplici e genuini, come i titolari degli stand. Gente che si guadagna da vivere continuando a produrre alimenti introvabili altrove: la marocca di Casola (pane toscano con farina di castagne), il Saras del fèn (ricotta avvolta e conservata nel fieno), il genepi piemontese, le melanzane rosse del Pollino, gli impronunciabili “cuddrireddri” siciliani.
Quasi assenti, ed è una grave mancanza, i prodotti lombardi: su oltre 200 Presìdi Slow Food, soltanto sei provengono dalla nostra regione, tra cui il celebre violino di capra della Valchiavenna. Nessuna menzione per la provincia di Varese, e poche anche le aziende della zona che portano la loro esperienza al Lingotto: un’occasione sprecata, se si pensa a quanto il territorio ha da offrire in termini di tradizione agricola e culinaria.
Per fortuna le alternative che si incontrano per i corridoi sono tante e gustose, e spaziano dai dolci tipici del cremasco, con accompagnamento di vini locali, agli assaggi di Mezcal messicano. Si scoprono così inaspettate convergenze di sapori, come quella tra il Chinotto, rarissimo agrume del savonese, e la Pompìa, frutto che cresce soltanto a Siniscola, in provincia di Nuoro. E si arriva alla conclusione che anche lavorando sulla qualità si può guadagnare, come insegna la storia del Bitto, il tipico formaggio valtellinese: grazie alla sua insistenza sulla mungitura a mano e sull’uso di sistemi tradizionali per la lavorazione, l’associazione dei produttori si è aggiudicata la ricca sponsorizzazione dei “fondamentalisti” della Coop Switzerland. Gli altri, come ricorda non senza ironia uno dei produttori presenti al Salone, sono rimasti a bocca asciutta.

(Articolo di Eugenio Peralta pubblicato su Lombardia Oggi del 5 novembre 2006)