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Dimmi quel che mangi...

Limone Interdonato e prosciutto di San Daniele, mele dei Monti Sibillini e trippa di Moncalieri, miele polacco e caciocavallo di Frosolone, carciofi bianchi di Pertosa e capocollo di Martina Franca: sono solo una minima parte dei sapori e dei profumi rimasti indelebilmente impressi nella memoria di chi ha avuto l’occasione e la fortuna di visitare, tra il 23 e il 27 ottobre, l’edizione 2008 del Salone del Gusto, la manifestazione biennale indetta da Slow Food tenutasi al Lingotto di Torino.
Ogni descrizione rischia di risultare inadeguata per un evento in grado di richiamare oltre 180.000 visitatori in cinque giorni, e che su uno spazio di più di 60.000 metri quadrati riesce ad accorpare 432 bancarelle (il 25% in più rispetto al 2006), 188 stand, 26 aree ristorazione organizzando per di più circa 400 tra degustazioni, laboratori, conferenze e incontri.
Si sappia però, una volta per tutte, che i superlativi non sono di circostanza.

Viaggio alle radici del gusto” è il claim del Salone di quest’anno, che trova spiegazione nella profonda compenetrazione con la manifestazione gemella Terra Madre, il meeting internazionale delle comunità del cibo in cui oltre 7000 tra agricoltori, allevatori, pescatori e altri lavoratori del settore alimentare provenienti da tutto il mondo si sono incontrati per condividere i rispettivi saperi e per discutere delle problematiche della propria comunità. Temi, è inutile dirlo, sempre più caldi, portati alla ribalta sia dalla crisi economica in corso, sia dall’imminenza dell’Expo 2015 che a Milano verterà proprio sul tema dell’alimentazione.
Per questi motivi l’attenzione mediatica rivolta al Salone è stata ben superiore rispetto alle precedenti edizioni e gli organizzatori non hanno mancato di sfruttare l’occasione, innanzitutto piazzando proprio all’inizio del percorso di visita la Strada Maestra: una serie di stand e installazioni che poneva l’accento sui temi cari a Slow Food, dalla giustizia sociale alla sostenibilità, dalla lotta agli sprechi al rispetto dell’ambiente (tutta la manifestazione è stata realizzata con tecniche e materiali a basso consumo, e ovunque campeggiavano contenitori per la raccolta differenziata). Un Salone programmaticamente pedagogico, alla ricerca di un consumo più consapevole, il cui contenuto si riassume in tre parole: educa, tutela, promuove. Proprio questo filone “educativo” è una delle novità principali che si è trovato di fronte chi era stato ospite delle precedenti edizioni, ma non è certo l’unica. Tra le più interessanti si segnalano i Mercati della Terra, una rete di mercati locali che promuove e distribuisce i prodotti delle zone d’appartenenza; le Cucine di Strada, bancarelle di specialità “da passeggio” come il kebab, la focaccia di Recco, la trippa fiorentina e l’eccezionale bombetta pugliese; la Piazza della Birra, in cui sono rappresentate le birrerie artigianali italiane e straniere; e Pensa che Mensa, un’area di sperimentazione con l’obiettivo di assicurare la qualità anche nella distribuzione dei pasti quotidiani in aziende, scuole e luoghi di lavoro.

La prima sensazione resta comunque, per il visitatore appena giunto a Torino, quella di un bambino fortunato la mattina di Natale. Troppi i “doni” da scartare, troppe le degustazioni guidate da non perdere, troppi i motivi di interesse, troppe le iniziative collaterali: dai Master of Food alla Banca del Vino, dagli Incontri con l’autore agli appuntamenti per le scuole (“Orto in condotta”). Una strada dispersiva, ma ammaliante, è quella di lasciarsi rapire da profumi e sapori, navigando liberamente prima nel Mercato, in cui trovano posto piccoli e grandi produttori da tutta Italia e dall’estero, e poi nella zona dei Presìdi Slow Food, in cui sono rappresentati i prodotti che per qualità e caratteristiche di lavorazione sono contrassegnati da un neonato marchio di garanzia. Più di 300 quest’anno i Presìdi, con un’ampia rappresentanza dall’estero: 3 asiatici, 10 africani e 29 dall’America Latina.
Le storie da raccontare sono infinite, gli aromi da apprezzare pure: l’eccezionale sedano nero di Trevi e la vastedda della valle del Belice (unico formaggio di pecora a pasta filata), il pollo olandese di Chaam e il “salampatata” di Caluso, la salsiccia di Bra e la malvasia di Bosa, la senape tedesca e gli oli di Molfetta, il formaggio nel sacco e la Tsamarella di Cipro, il piacentinu di Enna (tipico formaggio siciliano con zafferano e pepe) e le mandorle dell’Uzbekistan, la gallina dalle uova azzurre e il liquore di fichi d’india, in un’overdose di gusto e di qualità.

Tutto perfetto, dunque? Tutto buono, pulito e giusto? Quasi. Di fronte alla debordante varietà di cibi, di gusti e di modalità di alimentazione, allo straordinario arricchimento culturale derivante da questo momento di reciproco scambio e conoscenza, di fronte alla realizzazione di un sogno apparentemente impossibile (perché il racchiudere in uno spazio e in un tempo così angusto le antichissime storie di tanti popoli e tante generazioni non può essere altro che tale), un dubbio rimane: siamo davvero pronti a rinunciare a tutto questo nel nome del pur benemerito localismo, della difesa della tradizione, della sostenibilità? Oppure la “globalizzazione” – per usare un termine ormai logoro – è penetrata nelle nostre abitudini così profondamente che della contaminazione e della multiculturalità, intesa come risorsa per migliorarsi e non certo come occasione di scontro, non possiamo davvero più fare a meno?
E’ una domanda a cui si dovrà trovare una risposta in breve tempo, se è vero che, come nelle parole di Jean Anthelme Brillat-Savarin, “il destino delle nazioni dipende dal modo in cui si nutrono”.

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