Stampa

La botte piena e il turista ubriaco

Partiamo dalla fine, in senso letterale. Per la prima volta nella nostra poco luminosa “carriera”, infatti, siamo stati ospiti del Vinitaly nel giorno della chiusura, che da un paio d’anni cade il mercoledì. Dal punto di vista del visitatore, la scelta presenta pro e contro equamente divisi: i vantaggi sono la minore affluenza di pubblico e la maggior tranquillità in fiera, l’inconveniente principale è che alcuni espositori, soprattutto quelli geograficamente più lontani, iniziano a tirare su baracca e burattini molto prima dell’orario di chiusura. Ci soffermiamo su questi dettagli tecnici solo perché sono tra le poche variazioni notevoli da segnalare: per il resto il Vinitaly 2015 è stato, nel bene e nel male, il “solito” Vinitaly, malgrado l’anticipo sui tempi. La manifestazione si è svolta infatti dal 22 al 25 marzo, perché dal 1° maggio ci sarà da occuparsi dell’EXPO milanese, in cui Vinitaly e Veronafiere gestiranno il padiglione dedicato ai vini.

È stata però un’edizione molto discussa, sulla rete e non solo: tante, forse più del consueto, sono state le critiche rivolte all’organizzazione. Fra queste fa particolarmente scalpore un post di Alfonso Cevola, meglio noto come Italianwineguy, che sostanzialmente massacra la fiera di Verona dopo quasi 40 anni di frequentazione: il titolo, “Why this might be our last Vinitaly”, dice già tutto. Alcune delle osservazioni di Cevola appaiono pretestuose, come quelle sui fumatori davanti alle porte; altre ci risultano poco fondate, ad esempio per quanto riguarda i problemi di connessione (quest’anno la rete cellulare ha funzionato perfettamente, a differenza di altre occasioni). Difficile però negare che l’autore abbia ragione sui problemi più consistenti, quelli che riguardano la logistica e la massiccia presenza di visitatori occasionali, interessati soltanto a tracannare quanto più vino possibile. Si tratta di una questione annosa e priva di soluzione: da sempre l’evento cammina sul filo di un labilissimo equilibrio tra la vocazione fieristica, da un lato, e quella commerciale, dall’altro. Se Vinitaly non si fosse aperto alle masse non sarebbe diventato quello che è, e il mercato del vino ne avrebbe senz’altro sofferto; d’altro canto, capiamo benissimo che a qualcuno possa dare fastidio ritrovarsi a tentare di degustare un pregiato Amarone in mezzo a torme di scatenati ubriachi che cantano “Mi ubriaco e son felice, anche se poi vomito”…

Eliminando inviti gratuiti e bagarini, è chiaro, i disguidi si limiterebbero di molto, ma certamente l’organizzazione non potrebbe più sfoggiare numeri roboanti e in perpetua crescita: 150mila visitatori totali di cui ben 55mila dall’estero, 2600 giornalisti accreditati da 46 nazioni, buyer stranieri in arrivo da 140 paesi. Al di là delle dichiarazioni ufficiali, anche gli espositori da noi visitati personalmente sembrano in media soddsifatti dal numero di presenze e di contatti. Rispetto agli anni scorsi, che avevano visto emergere alcune precise tendenze settoriali, il panorama vinicolo sembra essersi più o meno stabilizzato. C’è però un trend che, a nostro modo di vedere, si impone chiaramente: è il successo crescente dei consorzi, siano essi gestiti da Regioni e Province, da associazioni di settore o da entità indipendenti. In pratica, sono sempre di meno – anche se ancora in maggioranza, beninteso – i produttori che si presentano al Vinitaly autonomamente, mentre in quasi tutti i padiglioni abbiamo notato il fiorire di stand collettivi, da quello scenografico della Regione Sardegna (vedi foto) alla scelta più sobria (pun intended) del Friuli, che ha suddiviso l’area a sua disposizione in varie “torri” in legno, ciascuna identificata da un nome di donna. Sarà banale ma l’unione fa la forza, non soltanto in termini economici ma anche per le maggiori chance di successo: meglio consigliarsi a vicenda che fare la guerra allo stand vicino, sembra lapalissiano ma non lo è. Il discorso vale a maggior ragione per le associazioni come la FIVI (Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti), che al Vinitaly aveva in gestione una zona di 300 metri quadri con 53 stand, ma che per il 2015 promette di mobilitare quasi la metà dei suoi 900 soci!

L’altro tema caldo è appunto quello della promozione e della comunicazione del vino, argomento di cui si parla sempre più spesso (talvolta a sproposito). Come emerge da una tavola rotonda tenutasi proprio in Fiera, persino la grande distribuzione ha ormai capito il concetto: puntare su sconti e offerte speciali svilisce un prodotto di estrema qualità, da raccontare e introdurre al pubblico nel miglior modo possibile. Il problema è che, come abbiamo accennato anche sul nostro blog, nonostante gli anni di esperienza non tutte le aziende sembrano aver colto la differenza: molti espositori si limitano al “compitino”, altri appaiono addirittura quasi infastiditi dai contatti con il pubblico, illudendosi che basti la presenza a Verona per aumentare magicamente la propria visibilità. Non è così, ovviamente: per imporsi in un mercato sempre più saturo, e che via via si sta aprendo anche alla concorrenza internazionale, serve capacità di narrare la propria storia e quella dei propri vini, di catturare l’attenzione del visitatore, persino di intrattenere. Sono cose che non si dovrebbero improvvisare, ma improvvisarle è comunque meglio di niente. Non è un caso, secondo noi, che le aree espositive più affollate del Vinitaly siano state anche quest’anno quelle dedicate al VIVIT (Vigne, vignaioli e terroir) e al Vinitaly Bio (vini biologici e biodinamici): un po’ per la moda del “green”, del sostenibile e dell’artigianale che spopola anche a Verona, ma molto anche per un approccio più “giovane” e informale al mondo del vino, capace di conquistare anche e soprattutto i visitatori più naif e meno informati. Che sono, o dovrebbero essere, il target più ambito per chi è in cerca di acquirenti.

Ci fermiamo qui per non annoiarvi oltre, ma vi lasciamo come al solito con una breve e personalissima selezione delle cantine che abbiamo avuto il privilegio di visitare.

Giuseppe Sedilesu – Mamoiada (NU): Questa piccola e relativamente giovane cantina di Mamoiada, nel cuore della Barbagia, è stata per noi la vera rivelazione del Vinitaly. Ma non siamo stati gli unici a notarla, dato che la rassegna si è aperta con l’assegnazione del riconoscimento di “Benemerito della viticoltura italiana 2015” e della Medaglia di Cangrande. Ben sei tipologie di Cannonau, dalle vigne più giovani alle più vecchie, compresi l’eccezionale ed eponimo Giuseppe Sedilesu e il barricato Carnevale; due bianchi dal vitigno autoctono Granazza, tra cui lo straordinario Perda Pintà, lasciato fermentare sulle bucce, che può raggiungere i 17 gradi. In generale, la volontà di affermarsi con una produzione di qualità e senza concessioni al “mercato”.

Skok – S.Floriano del Collio (GO): A due passi dal confine con la Slovenia i fratelli Skok producono bianchi di altissima qualità come Pinot Grigio, Chardonnay, Sauvignon e il premiatissimo Zabura, che sarebbe poi l’ex Tocai, da abbinare al prosciutto di Cormons. Ma il vero asso pigliatutto dell’azienda è indubbiamente il Bianco Pe/Ar, un blend di Pinot Grigio, Sauvignon e Chardonnay, quest’ultimo raccolto in vendemmia tardiva e affinato in parte in barrique: il risultato è un vino complesso e armonioso, quasi da meditazione.

Massolino – Serralunga d’Alba (CN): Recentemente ci siamo occupati della rivoluzione delle Langhe, operata negli anni Novanta dai “Barolo Boys”. Bene, Massolino sta esattamente dalla parte opposta: è un capostipite dei tradizionalisti, che produce vino dal 1896. Il suo Barolo, anzi, i suoi Barolo hanno un carattere austero e severo, con variazioni legate al vigneto di provenienza: ci sono il complesso Margheria, il potente Parafada, l’elegante Parussi e il Vigna Rionda, destinato al lungo invecchiamento. La produzione si completa poi con Barbera, Dolcetto, Nebbiolo, Moscato e Chardonnay.

Rottensteiner – Bolzano: Uno straordinario Gewürztraminer, dal profumo intensissimo ma dal sapore delicato e non troppo invasivo, è il fiore all’occhiello di questa cantina altoatesina, soprattutto nella cru Cancenai. Eccellente anche il Müller Thurgau, fresco e piacevole. Produzione molto vasta che comprende anche Chardonnay, Sylvaner, Pinot Bianco e Grigio, e rossi come Lagrein, Pinot Nero e Cabernet.

Colli Ripani – Ripatransone (AP): Nella sterminata produzione di questa cantina, che riunisce oggi oltre 400 soci per un totale di 800 ettari coltivati, si evidenziano soprattutto i bianchi: la Passerina Ninfa Ripana e il Pecorino Rugaro. Ad attirare sono però anche le etichette, realizzate dal designer Andrea Castelletti e premiate al concorso di packaging del Vinitaly: perfette quella del Marche IGT Sangiovese, vincitrice del primo premio, e quella “parlante” del Rosso Piceno (di cui, peraltro, è molto apprezzabile anche il contenuto!)

Polvanera – Gioia del Colle (BA): Nel carnet ci sono Aglianico, Minutolo, Falanghina, Moscato e persino un Brut Rosé, ma da queste parti si viene essenzialmente per il Primitivo. E non si rimane delusi perché la resa è straordinaria, sia nella versione base Primitivo 14 sia in quelle dalle vigne più antiche, che raggiungono i 16 e i 17 gradi alcolici (da cui i rispettivi nomi), tutte affinate in solo acciaio. Ne esistono anche varianti Bio e senza solfiti.

Guidi – Poggibonsi (SI): Attiva fin dagli anni Trenta, l’azienda senese è specializzata nella produzione di Vernaccia di San Gimignano, sia nella versione base che in quella affinata in legno per un anno, entrambe profumatissime e di raro equilibrio. Ottimo però anche il Chianti, dai tannini particolarmente aggressivi e persistenti.

Firmino Miotti – Breganze (VI): Uno dei produttori che negli ultimi anni ha rilanciato la moda dei vini “col fondo” o “sur lie”, rifermentati in bottiglia sui lieviti. Tra questi il Pedevendo, tratto da una rarissima uva autoctona del vicentino, e la leggera ed effervescente Sampagna da uva Marzemina Bianca. Eccellente anche il passito Torcolato.

Máté – Montalcino (SI): Non ci vuole un genio per accorgersi che le origini non sono propriamente autoctone: il fondatore Ferenc è un ungherese che arrivò negli anni Novanta da New York. Eppure i prodotti di questa piccola azienda dalle nobili origini hanno un sapore toscanissimo, soprattutto per quanto riguarda lo spettacolare Brunello di Montalcino. Ottimo anche il Merlot, considerato tra i migliori d’Italia.

Al di là del fiume – Marzabotto (BO): Giovane e poco convenzionale azienda bolognese che non ha certamente paura di rischiare, con prodotti poco noti come l’Albana Fricandò, un bianco macerato con le bucce per 10 giorni, e la Barbera Saramat. Ma soprattutto con la Barbera Dagamò, invecchiata per 3-4 mesi in anfore di terracotta che le conferiscono un gusto del tutto particolare: non adatto a tutti i palati, ma da provare.

Cioti – Campli (TE): La tradizione fatta vino. Uno dei viticoltori storici del borgo di Paterno di Campli, ancora oggi attivo per tenere viva la memoria dei grandi vini locali: Passerina, Cerasuolo e soprattutto l’eccellente Montepulciano d’Abruzzo, affinato in barrique. Altra specialità della casa è il vin cotto “Lu Bambinell”, sempre da uve Montepulciano, preparato in paiolo di rame e affinato in botte per almeno un anno.
Maria Donata Bianchi – Diano Arentino (IM): In attività dagli anni Settanta, oggi questa azienda vinicola gestisce anche lo scenografico agriturismo Valcrosa, a due passi dal mare. Tra i vini brillano naturalmente il Vermentino e il Pigato, entrambi di ottima qualità.

Canalicchio – Montalcino (SI): Azienda relativamente giovane che sorge in un territorio ricco di storia. Il suo Brunello di Montalcino, molto popolare (e costoso), ha un gusto elegante e raffinato. Produce inoltre il Rosso di Montalcino e l’IGT “Il Bersaglio”.

Audacia Wines – Stellenbosch (Sudafrica): Da questa nota cantina sudafricana potrebbe arrivare una tecnica di produzione rivoluzionaria: stanno per essere lanciati sul mercato europeo i Rooibos Wooded Wines, invecchiati nel legno di due alberi locali, che non soltanto conferisce al vino un gusto peculiare e inconfondibile, ma è in grado di facilitare l’eliminazione dei solfiti. I prodotti, dal Merlot allo Shiraz, sono di alto livello.
Stampa

Barrique e barricate

“I giovani d’oggi non sanno più lavorare. Dovete imparare a produrre qualcosa con le vostre mani!”. Sembra di ascoltare un incallito reazionario, e invece a parlare è Elio Altare, uno degli artefici della rivoluzione che negli anni Novanta ha cambiato il Barolo, le Langhe e il mondo del vino italiano. Ecco uno dei motivi per cui bisogna guardare Barolo Boys (anche se la frase di cui sopra non è nel film): perché il documentario di Tiziano Gaia e Paolo Casalis, più che sull’enologia, è un’opera sulla vita, sull’eterno contrasto tra padri e figli, sui meccanismi che trasformano gli uomini da incendiari in pompieri. Poi di motivi ce ne sono anche altri: per gli amanti del vino è irresistibile assistere all’eterna querelle tra “modernisti” e “tradizionalisti” e rendersi conto che la stessa diatriba potrebbe applicarsi praticamente a tutte le regioni italiane: dall’Amarone al Chianti, fino al Prosecco e al Cannonau in tempi più recenti, i nostri grandi vini hanno tutti vissuto la trasformazione da bevanda popolare a prodotto di lusso, e contestualmente gli adattamenti al mercato, i mutamenti di gusto e stile, lo scontro tra vecchi e giovani. Infine l’ultimo motivo: Barolo Boys è un bel film per ritmo, vivacità e struttura, in grado di coinvolgere anche lo spettatore che del vino e della storia narrata non sa assolutamente nulla. E ciò a dispetto della presenza (inutile e francamente evitabile) dei “prezzemolini” Joe Bastianich e Oscar Farinetti, d’altra parte anche finanziatore del progetto attraverso Eataly Media.

Certo, il carico da undici ce lo mette l’indiscutibile fascino della storia di un gruppo di piccoli produttori che negli anni Ottanta, ispirandosi alle tecniche di vinificazione francesi, hanno mutato radicalmente il metodo di produzione del Barolo trasformandolo in un vino di estremo pregio, da guide enologiche e da tavole di lusso. Comprese quelle degli Stati Uniti, dove i “Barolo Boys” furono trascinati dall’importatore Marc De Grazia (che, insieme ad Altare, è il vero protagonista del film). Si potrebbe discutere all’infinito, e in effetti in rete lo si sta facendo, su chi avesse ragione tra i due partiti; se i fautori delle barrique e della sfoltitura o quelli della tradizione, dell’identità, del terroir. Di certo, come dice con un certo candore Carlìn Petrini, il “pensiero dominante” di oggi sul vino non è più quello di trent’anni fa, e presumibilmente fra trent’anni sarà ancora diverso: un processo affascinante che, visto in prospettiva, dà il giusto peso a quelle che la comunicazione enologica battezza spesso come verità ma che si rivelano, il più delle volte, semplici opinioni.

Alla fine, quindi, chi ha vinto? La risposta è già nel film: ha vinto la Langa, che da terra brulla e abbandonata si è trasformata in ricercatissima (e costosissima) culla del Made in Italy. Hanno vinto i “langhetti”, usciti da una povertà assoluta e secolare per diventare sofisticati apostoli del vino o perlomeno, e non è poco, per ricostruire paesi e famiglie svuotati dall’emigrazione. I nuovi progetti di Elio Altare, che oggi produce vino dolce nelle Cinqueterre, e di Chiara Boschis con il suoCastelmagno dell’Alta Langa, sono la miglior dimostrazione del fatto che in fondo la strada intrapresa era quella giusta, a dispetto dei puristi che accusano i Boys, magari anche con qualche ragione, di aver “snaturato” il loro prodotto storico.

Ultima postilla non da poco: Altare e Boschis, insieme a un rappresentante della generazione successiva come Alessandro Ceretto, erano presenti alla prima proiezione milanese del film per il ciclo “Food Fighters” organizzato da CeCINEPas, con tanto di degustazione di vini e formaggi. Il tutto davanti a un pubblico quasi da record per un documentario (in platea c’era persino l’attore Renato Pozzetto). Difficile non considerarla un’ottima notizia!

Stampa

Foto da Identità Golose 2015

Undicesima edizione per il congresso di alta cucina ideato da Paolo Marchi e da qualche anno abbinato al Milano Food & Wine Festival. Ecco le immagini più significative, per saperne di più leggete il nostro reportage Come se ci fosse un domani!


La folla nella sala principale del congresso


L'intervento più atteso è quello di Massimo Bottura


Lo stand dei produttori di formaggio Piave


Si cucina dietro le quinte


Un altro dei tanti stand nei corridoi del MiCo


Ingresso del Milano Food & Wine Festival


I vini dell'azienda Lauro & Rivetti


Franco Pepe presenta le sue pizze


Ecco cos'è la 'nduja per la giovane chef Caterina Ceraudo


La melanzana rossa alla brace di Enrico Bartolini


Ed ecco Enrico Bartolini in persona con le sue "illusioni culinarie"


Ancora Caterina Ceraudo premiata come miglior chef al femminile


La creazione di Gabriele Maria Castellanza per il concorso San Pellegrino Young Chef: midollo di vitello cotto a bassa temperatura, acciughe e fluid gel di verza
Stampa

Come se ci fosse un domani

La percezione sensoriale più rilevante dell'edizione 2015 di Identità Golose? Non c'è dubbio: la compressione. Mai come quest'anno il convegno ideato da Paolo Marchi ha attirato a Milano frotte di curiosi, appassionati e addetti ai lavori, tanto da rendere ardui gli spostamenti tra i corridoi del MiCo anche nei giorni e negli orari più improbabili. L'impressione è che questa sarà una costante di tutti gli eventi gastronomici da qui al termine di EXPO 2015, soprattutto nel capoluogo lombardo, ma qualche merito va dato pure agli organizzatori (e ai fior di sponsor) che ogni anno riescono a radunare davanti alla platea di Identità tutto il gotha dell'arte culinaria italiana e internazionale.
Negli anni qualche difetto della manifestazione resta invariato, come la tendenza alla prosopopea e all'eccessiva autocelebrazione, ma nel complesso si percepisce uno sforzo per avvicinare il festival al pubblico e al mondo reale. Soprattutto nelle figure degli chef, veri protagonisti dell'evento, che se da un lato tentano di cavalcare l'onda della celebrità televisiva, dall'altro cercano disperatamente di uscire dalla nicchia dorata che si sono scavati, tentando di ritagliarsi un ruolo più autorevole e meno spettacolarizzato.

I concetti che emergono dalla miriade di incontri organizzati nel corso della tre giorni di Identità, anche se talvolta espressi in modo pomposo, non mancano di suscitare interesse. Fa molto riflettere, ad esempio, che il re degli chef italiani Massimo Bottura e l'emergente figlia d'arte Caterina Ceraudo propongano in sostanza la stessa idea: un brodo ricavato da bucce di patata, simbolo del recupero degli scarti culinari in un periodo di necessaria attenzione alla "sostenibilità" e al risparmio anche in cucina. Un po' sarà emulazione, ma sicuramente è anche l'espressione di una weltanschauung assai diversa da quella che imperava anche solo un decennio fa. Bottura, del resto, ne fa un vero e proprio cavallo di battaglia: nel suo intervento, dopo un commosso omaggio a Stefano Bonilli, l'istrionico chef modenese regala costruzioni filosofiche come il piatto "Il pane è oro", a base di pane secco, i già citati passatelli in brodo "di recupero" e persino un gelato a base di bucce di banana tostate, con citazione artistica del disco di esordio dei Velvet Underground, quello con la celeberrima copertina di Andy Warhol ("Peel slowly and see"). "Recuperare non è degradante - spiega Bottura - anzi è analogo a riconquistare, è un atto di volontà e di forza. Dobbiamo imparare a valorizzare ciò che abbiamo fino al completo esaurimento, in ogni fase del suo ciclo. Scartare, buttare via il cibo significa arrendersi e gettare la spugna. Se perdiamo la cultura del cibo perdiamo prima di tutto l'identità e poi la dignità". Parole non solo da cuoco e da artista, ma da vero ambasciatore della cucina italiana nel mondo, anche se nella sua relazione non manca un richiamo ai colleghi: "Dobbiamo cambiare prospettiva, il ruolo dello chef si è appiattito verso una superficialità glamour. Guardiamoci da 10 km di distanza: lo chef sta a mezza via tra chi ha tutto e chi non ha niente".

Certamente ha molto Bottura, che sarà uno dei protagonisti assoluti di EXPO 2015; e all'evento milanese avrà un ruolo centrale anche Identità Golose, che disporrà di un proprio spazio espositivo lungo il "Decumano" principale. Come rappresentante della cucina italiana ci sarà tra gli altri Paolo Griffa, chef del "Piccolo Lago" a Verbania, proclamato vincitore del concorso San Pellegrino Young Chef proprio in occasione del convegno milanese: l'esibizione dei giovani talenti è stato uno dei momenti più interessanti del festival.
I fortunati che visiteranno EXPO potranno anche assaggiare la melanzana alla brace di Enrico Bartolini, uno che di cucina ha un'idea radicalmente diversa, tutta basata sull'illusione: le sue "mandorle" ripiene di scampi, le alici tra saor e carpione, i funghi porcini "ricostruiti" più che piatti sono numeri di magia, così come da mago è l'aplomb dimostrato in scena. Interessante anche il ciclo di incontri sul piccante: la già citata Caterina Ceraudo, allieva di Niko Romito premiata tra l'altro come migliore chef al femminile, ha dato la sua interpretazione della 'nduja calabrese utilizzata all'interno di piatti delicati e raffinati come i "Bottoncini alle mandorle". Ampio spazio dedicato ancora una volta alla panificazione e alla pizza: Franco Pepe, creatore del "Pepe in Grani" di Caiazzo (Caserta), ha presentato tra l'altro la sua "margherita sbagliata" con gli ingredienti disposti in ordine inverso. Ma, soprattutto, ha parlato del suo progetto di riqualificazione dei prodotti agricoli locali, come il pomodoro riccio, una varietà coltivata nell'Ottocento e recentemente riscoperta. 
Tutto decisamente interessante, anche se alcuni congressisti lamentano interventi troppo mirati al pubblico e poco tecnici, soprattutto a fronte di un biglietto d'ingresso decisamente "salato".

Per concludere due parole sul Milano Food & Wine Festival, evento gemello che come ogni anno rischia di essere oscurato dall'ingombrante vicino. Le cose non sono sostanzialmente cambiate rispetto alle scorse edizioni: quest'anno si sono ridotti gli show cooking, puntando più che altro sulle degustazioni dei piatti degli chef ospiti (tra cui Davide Oldani, Christian Milone, Pietro Leemann). 64 i produttori che hanno presentato i loro vini, una selezione di quelli che compariranno al Merano Wine Festival: tra loro molte vecchie conoscenze, come i valtellinesi Rivetti & Lauro o la cantina Nino Franco di Valdobbiadene, e qualche piacevole sorpresa come il Grillesino di Magliano in Toscana.

Foto da Identità Golose 2015

Stampa

Argentina para principiantes

Partiamo dalle basi: ci sono tre cose che dovete assolutamente sapere se avete intenzione di visitare l’Argentina nel prossimo futuro. Eccole:

1) L’Argentina non è un paese sudamericano. Può sembrare un paradosso, ma da Buenos Aires in giù troverete ben poco di quanto l’immaginario collettivo associa all’America Latina: scordatevi musiche dal ritmo trascinante, colori sgargianti, feste sfrenate e in generale tutto quanto è sopra le righe.

2) L’Argentina ha una moneta debole. Le vicissitudini finanziarie del paese di Cristina Kirchner (che non vediamo benissimo per le elezioni del 2015) sono ben note. Pur vivendo in un paese tendenzialmente benestante e niente affatto povero,  gli argentini hanno grossi problemi di inflazione e di conseguenza tendono ad accettare volentieri monete forti come euro e dollaro, anche a tassi di cambio molto convenienti.

3) L’Argentina è un’Italia parallela. L’immigrazione italiana è stata talmente cospicua che quasi tutti coloro con cui parlerete vi diranno di avere un parente in Italia, o in mancanza di meglio fingeranno di averlo per impressionarvi (true story). Di tempo ne è passato parecchio, ma le somiglianze con il nostro paese restano enormi - e non tutte positive - a livello di usi, costumi e atteggiamenti.

Se abbiamo sottolineato questi tre punti è perché tutti, in qualche modo, hanno a che fare con il cibo, che è poi l’argomento che ci sta più a cuore. Innanzitutto, in barba alle migliaia di chilometri che ci separano, sulle tavole argentine non troverete nulla di particolarmente sconvolgente: i sapori e profumi esotici sono quasi inesistenti, frutta e verdura esattamente le stesse che siamo abituati a vedere da noi, anzi con minore varietà. I mercati alimentari di Cordoba o Mendoza, per quanto interessanti e folcloristici, sono di fatto indistinguibili dai loro omologhi europei: la massima “stranezza” è la carne di cincillà, un grosso roditore simile al coniglio. Per il resto vedrete capretti e maialini sgozzati, ma nulla che possa impressionare un italiano avvezzo al sanguinaccio (tra l’altro molto diffuso da queste parti) o alla trippa.

L’unico vero gusto inconsueto da provare è quello del mate, tipico infuso di foglie (la yerba mate appunto) consumato nell’omonimo recipiente e sorbito tramite la bombilla, una cannuccia bucherellata; più che una bevanda un vero e proprio rito, dato che in Argentina e – soprattutto – in Uruguay lo si beve in qualsiasi momento della giornata, rabboccandolo di volta in volta per mezzo di un thermos di acqua calda. Non lo troverete in vendita, se non in versione molto edulcorata: il mate si consuma da soli e si offre agli ospiti, ma vista la sua capillare diffusione è praticamente impossibile non riuscire a provarlo! Ci sarebbe poi un altro alimento caratteristico, il famigerato dulce de leche: una dolcissima crema di origine cilena a base di latte e zucchero, che gli argentini non si limitano a consumare da solo ma usano come ripieno di torte e altre preparazioni già di per sé dolcissime. Il risultato può essere stucchevole e nauseante per palati poco allenati, ma anche in questo caso sottrarsi è assai difficile: i tipici alfajores, dolcetti di cioccolato ripieni di dulce de leche, sono in agguato ovunque, compresi aerei e pullman di linea.

Per il resto le abitudini di consumo sono molto simili a quelle europee, tipologie di locali e tempistiche compresi: nelle località più turistiche e nelle grandi città si può ovviamente mangiare in qualsiasi momento della giornata, ma in generale i ristoranti tendono a osservare orari “normali” per pranzo e cena. Tuttavia gli argentini, sul modello spagnolo, tendono a spostare in avanti il pasto serale fino alle 21.30-22; di conseguenza i bar si riempiono ben oltre la mezzanotte e i locali notturni neppure si prendono la briga di aprire prima delle 2 (tenetelo presente se volete “fare serata”).

Su questo, come sull’alimentazione in generale, incide ovviamente il secondo punto: il primo consiglio che si può dare a un turista del vecchio continente è quello di munirsi di cospicue quantità di euro, così da poter usufruire di sconti rilevanti (evitando sia le frequenti disfunzioni degli sportelli automatici, sia le non trascurabili commissioni sui prelievi). Al cambio ufficiale, i prezzi non sono invece così dissimili dai nostri: a Buenos Aires per un pasto completo in un ristorante di medio livello si spendono sui 30-35 euro. In altre città i prezzi calano (Cordoba la più economica), ma è obiettivamente difficile restare sotto i 20.

E veniamo al terzo punto di cui sopra, il più delicato: le origini italiane più o meno recenti di gran parte della popolazione fanno sì che in Argentina abbondino, ancor più che nel resto del mondo, piatti e preparazioni che ricordano il Bel Paese. Ma non garantisce affatto che siano meno travisati che altrove. L’esempio più tipico è il caffè: pessimo quasi ovunque, anche quando si ha l’accortezza di chiederlo chiquito (equivale a una tazzina da espresso piena fino all’orlo). Innocua e tutto sommato piacevole è invece la milanesa, nient’altro che una fettina di vitello impanata: onnipresente come antipasto, piatto principale o ripieno di panini. Inutile dire che la pizza con muzzarella (già il nome fa rabbrividire) non ha nulla a che vedere con la nostra, così come il tiramisu; e con queste premesse non ce la siamo proprio sentita di ordinare pasta, che pure è diffusissima sotto forma di ñoquis (gnocchi) o tallarines oltre che reperibile in qualsiasi supermercato, anche se con nomi piuttosto diversi da quelli a cui siamo abituati (vedi foto).

Sì, ma allora… cosa si mangia in Argentina? La risposta non vi stupirà: carne, sempre e comunque. La carne è il ripieno delle celeberrime empanadas, l’antipasto per eccellenza; è l’immancabile condimento di ogni insalata; ed è, naturalmente, la protagonista assoluta della parrillada o parrilla (griglia), la parola che si sente ripetere più frequentemente nel paese, molto più di asado (che indica in generale il manzo alla brace).  Nota bene: la doppia “l” si pronuncia alla sudamericana, quindi “parrisgia” e non “parriya” come in Spagna. Carne di manzo dunque, ma in tagli piuttosto diversi dalle nostre abitudini: le bistecche con l’osso qui non vanno di moda, si preferiscono il bife de chorizo (parte esterna della schiena, spessa e con una robusta copertura di grasso) o il pregiatissimo ojo de bife (la parte centrale dello stesso pezzo). O ancora il lomo (taglio sotto le costole), il vacìo (paragonabile al controfiletto), il peculiare e ottimo matambre (strato molto sottile che si trova tra la pelle e le costole).  Il tutto accompagnato da morcillas (sorta di sanguinaccio), chorizos (salsicce) e interiora varie, soprattutto rognoni e intestini. Non aspettatevi carne al sangue, o almeno non fatene il vostro paradigma: nei ristoranti di Baires si può naturalmente selezionare la cottura preferita, ma nelle parrillas di campagna il manzo vi verrà generalmente servito stracotto, eppure ancora eccellente grazie all’ottima qualità dell’ingrediente di base. Indispensabile accompagnare il tutto con il chimichurri, semplice salsa a base di spezie, olio e limone.

Il manzo è il protagonista assoluto della tavola, ma non l’unico: al suo fianco compaiono talvolta degni comprimari come l’agnello (cordero), diffuso specialmente in Patagonia, il chivo (capretto), il pollo e più raramente il lechon (maialino). Zuppe di legumi, verdure e zucca sono diffuse specialmente nelle regioni più fredde; gli antipasti sono invece verdure in escabeche, cioè annegate nell’aceto, e l’immancabile salsina servita a inizio pasto, diversa per ogni ristorante, con accompagnamento di ottimo pane artigianale. I pesci oceanici sono tanti e quasi tutti poco saporiti, dall’abadejo al lenguado; in prossimità di laghi e fiumi si trovano facilmente anche trucha (trota) e salmone. Gli argentini amano molto anche rimpinzarsi di fiambres (affettati) come prosciutto crudo e cotto, mortadella o salame, quasi tutti però di qualità non eccelsa. I formaggi (quesos) sono quasi esclusivamente a pasta molle e semi-freschi, anche se non manca qualche simil-parmigiano. Infine due piatti locali da provare: in Uruguay e nelle zone di confine è diffuso il chivito, un abominevole miscuglio di carne, bacon, prosciutto, uovo al tegamino e patatine. A Cordoba si gusta invece il locro, zuppa di mais con carne (ovviamente) e abbondante salsa piccante.

Non si può chiudere senza parlare del bere: a parte il mate, di cui si è già detto, è indubbio che la bevanda nazionale argentina sia la birra. Sebbene siano presenti altre marche, come la Patagonia, e non poche birrerie artigianali, la Quilmes resta padrona assoluta del mercato e viene consumata senza risparmio anche grazie alle benemerite bottiglie da 1 litro, molto convenienti anche economicamente (al bar o al ristorante costano circa 4 euro l’una). Intanto aumentano vertiginosamente i consumi di vino e si capisce anche il perché: le cantine argentine, quasi tutte della zona di Mendoza, sfornano prodotti di sempre maggior valore , ormai in grado di competere con tutti i concorrenti internazionali. La selezione è facilitata dal fatto che i vitigni utilizzati sono quasi esclusivamente il Malbec, dal caratteristico gusto dolce e morbido, e il più aromatico Cabernet Sauvignon: le “bodegas” tra cui scegliere, più o meno pregiate, sono però innumerevoli. I costi sono accessibili ma non bassissimi, dai 10 fino ai 40-50 euro a bottiglia (sempre al cambio ufficiale). A fine pasto, se doveste trovarli, non lasciatevi sfuggire un sorso di uno dei  leggeri liquori tipici, il delicato Legui o il più robusto Amargo Obrero.

Eppure la bevanda più amata e consumata in Argentina, quella che risponde invariabilmente alla domanda “cosa si beve stasera?”, non è nessuna di queste. Sembra incredibile, ma il re incontrastato dei banconi da bar in questo angolo di Sudamerica è… il Fernet Branca! Protagonista di faraoniche campagne pubblicitarie, oggetto di culto di giovani e vecchi e utilizzato persino come souvenir per turisti, l’amaro milanese – bevuto liscio, ma soprattutto con accompagnamento di Coca Cola – da queste parti ha conosciuto un successo assolutamente incomparabile con quello ottenuto in Europa, tanto da trasformarsi in una tradizione locale tra le più amate. Come dire che a volte emigrare non è poi così male…

Ricerca rapida

Regione
Provincia

Login Form

Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Credits - Nota legale