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Voci dal Salone: Davide Scabin e la pasta da passeggio

Avete presente i cartoni animati e manga giapponesi risalenti all’infanzia (ahimé, lontana) di alcuni di noi, quelli in cui i protagonisti divoravano avidamente noodles con carne e verdure suggendoli da strane coppette di carta o di plastica? Ecco: oggi la stessa cosa sta accadendo alla pasta italiana. Prima di fuggire inorriditi, sappiate che dietro all’iniziativa ci sono nientemeno che Davide Scabin, bistellato chef del Combal.Zero di Rivoli, e il Pastificio Felicetti, uno dei più celebri d’Italia, da vent’anni convertitosi alle coltivazioni biologiche e protagonista del lancio della linea Monograno. Insieme, in occasione dell’ultimo Salone del Gusto, hanno deciso di lanciare la clamorosa novità dello street food all’italiana, una pasta “da passeggio” da conservare sottovuoto dopo la cottura. Trovata pubblicitaria? Sì, ma con potenzialità per nulla da sottovalutare, e infatti sono stati in molti ad avvicinarsi allo stand, spinti non soltanto dalla fame ma anche dal fiuto commerciale.

A Torino abbiamo incontrato Cristian Deflorian, responsabile vendite di Felicetti per l’Italia, che ci racconta così il progetto: “Volevamo riproporre il classico street food orientale, declinandolo però in chiave al 100% italiana. Alla base c’è il grano di qualità Matt, coltivato in Sicilia da cooperative di agricoltori, poi portato in Trentino, dove il pastificio ha sede da ormai 104 anni, e amalgamato con acqua di sorgente delle Dolomiti: insomma, uniamo simbolicamente tutto il paese”. Ma come si realizza il piatto ideato da Scabin? “Sono delle cialde di spaghettoni Matt preparate con cottura passiva: si fa cuocere la pasta per 4 minuti in acqua bollente, poi la si toglie dal fuoco e la si lascia per una decina di minuti in infusione in acqua calda. Si scola la pasta, si mette in un coppapasta per darle la forma di cialda, poi si conserva sottovuoto in frigo, addensata con l’amido. Al momento di consumarla viene messa in un brodo che scioglie l’amido e le fa riprendere la sua struttura: la pasta mantiene la sua elasticità e anche dopo due giorni che è stata preparata è ancora “al dente”, il che per noi italiani è fondamentale”.

Le possibili applicazioni commerciali di questa “scoperta” sono ancora un sogno, ma visto il gradimento registrato al Salone tutto è possibile: “Sarebbe bello – dice Deflorian – se nascessero dei fast food che valorizzassero i prodotti italiani biologici, monovarietali e di alta qualità, per avvicinare alle eccellenze italiane anche i giovani che sono abituati a mangiare “fast”. Del resto lo hanno già fatto i nostri visitatori a Torino, passeggiando tranquillamente tra gli stand”. Comunque vada a finire, l’esperienza con Slow Food è stata più che positiva per Felicetti: “È la quarta volta che partecipiamo e in ogni occasione ho visto crescere la consapevolezza del consumatore. Prima c’era una clientela interessata esclusivamente al prezzo, adesso il prezzo non è più una priorità ma viene richiesta la qualità del prodotto, e questa è una cosa che ci fa pensare: in un periodo di crisi ci si aspetterebbe il contrario. Invece, fortunatamente, quest’anno c’è tanta gente interessata che prima di mangiare chiede cosa sta mangiando. Questo, per noi, è già un grande successo”.

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Sarebbe bello se nascessero dei fast food che vadano a valorizzare prodotti di qualità italiani, biologici, monovarietali e di alta qualità, per far sì che anche i giovani che sono abituati a mangiare nei veri fast food si avvicinassero in modo fast a quella che è la cucina di eccellenza italiane. In questo caso abbiamo la fortuna di collaborare con Davide Scabin che si mette in gioco giocando con noi e permettendo ai visitatori del Salone del Gusto di assaggiare cibo italiano di altissima qualità passeggiando tranquillamente tra gli stand.

 

Sicuramente dobbiamo dato atto a Slow Food e a tutti gli organizzatori, noi quarta volta che partecipiamo e ho visto crescere ogni volta la consapevolezza del consumatore: prima consumatore interessato esclusivamente al prezzo, adesso il prezzo non lo tocca più ma chiede la qualità del prodotto, e questa è una cosa che ci fa pensare: in un periodo di crisi uno si immaginerebbe la situazione all’opposto, invece fortunatamente quest’anno è stata una bella manifestazione, gente interessata e consapevole di cosa mangia e prima di mangiare chiede cosa sta mangiando, questo per noi è già un grande successo.

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Voci dal Salone: Alacce nel paese delle meraviglie

Cosa siano i Presìdi Slow Food dovrebbero saperlo ormai tutti: piccole associazioni, finanziate da enti locali o società private, nate per tutelare la biodiversità salvando le eccellenze gastronomiche che rischiano l'estinzione. I prodotti presi in considerazione sono di ogni tipo, dai salumi al miele passando per latticini, pane, razze animali e varietà di verdure o cereali; per preservarli si ricorre all'aiuto economico diretto alle aziende, ma anche alla distribuzione commerciale e alla promozione culturale. Il progetto è nato nel 1998; oggi i Presìdi sono 224 in Italia e oltre 350 nel mondo, per un totale di quasi 12.000 produttori coinvolti. Per farli conoscere, dopo averli dotati di uno specifico marchio, Slow Food ha promosso anche l'Alleanza tra i cuochi e i Presìdi, un progetto per utilizzare i prodotti tutelati nei ristoranti, e le Etichette Narranti che riportano, oltre agli ingredienti del cibo che si sta per acquistare, anche i dettagli sul luogo di produzione, sulle tecniche utilizzate e sulla storia dell'azienda. L'elenco dei Presìdi non è immutabile: ogni anno, per fortuna, se ne aggiungono di nuovi. Tra i cibi "adottati" più recentemente c'è l'Alaccia salata di Lampedusa, la cui storia basta da sola a spiegare l'esistenzae il significato dell'intero progetto di Slow Food.

L'alaccia appartiene alla stessa famiglia delle sardine e delle aringhe, da cui si distingue per la lunghezza (fino a 30 centimetri) e una striscia dorata sui lati. Per i pescatori di Lampedusa, negli ultimi duecento anni, è stata il sostentamento principale durante le lunghe battute di pesca in alto mare, ma è bastato un decennio di crisi economica, aumento dei prezzi del carburante e sbarchi di clandestini sull'isola per decimare le aziende che se ne occupavano: da 20 e più sono rimaste soltanto in due, benché il pesce sia ancora disponibile in grande quantità. Al Salone del Gusto di Torino abbiamo incontrato Giuseppe Billeci, uno degli ultimi produttori: "Stiamo cercando di valorizzare questa attività - ci ha raccontato - ma senza il Presidio dovremmo chiudere e mollare tutto. Ormai sono rimaste solo due barche con 10-12 persone a bordo: i pescatori di un tempo hanno smesso, i giovani non fanno più questi lavori e in un'isola piccola come Lampedusa non è facile trovare sostituti. Ora stiamo provando a valorizzare l'alaccia con l'aiuto di tutta la popolazione". Concretamente, il Presidio diretto da Massimo Brucato e sostenuto dalla Regione Sicilia sta finanziando la costruzione di un laboratorio per la trasformazione del pescato (sotto sale o sott'olio) e la sua vendita: solo così si può salvare un'attività che dura sei mesi all'anno - da maggio a novembre - e si serve ancora degli strumenti di un tempo, la piccola lampara (22 metri di lunghezza al massimo) e il cianciolo, una rete che non danneggia i fondali. Ne vale la pena, anche perché l'alaccia è buona davvero: "Rispetto all'acciuga - spiega Billeci - è molto più grande e carnosa e quindi anche più gustosa da mangiare. Si può consumare in diversi modi, intera o sfilettata, fritta, sotto sale, sott'olio o con il peperoncino. Non si pesca solo a Lampedusa, ma la nostra è più grassa e più pregiata".

Per informazioni sul Presidio contattare l'indirizzo mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo. .
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Voci dal Salone: Non rompeteci i timpani

Tra le tante tendenze della gastronomia moderna, caratterizzata dall’affannosa ricerca di una tradizione troppo frettolosamente accantonata, c’è anche la riscoperta dei cosiddetti piatti di riciclo, quelli creati con infinita saggezza dalle massaie di una volta per evitare di sprecare alimenti preziosi. Antonio Tubelli, celebre cuoco napoletano immediatamente riconoscibile per la “scazzettella” (zucchetto) che porta come copricapo, non ha avuto certo bisogno di attendere l’esplosione della moda per impararlo: non a caso il suo minuscolo ristorante si chiama “Timpani e tempura, dove il “timpano” non è altro che la declinazione partenopea del timballo, un tipico pasticcio di maccheroni ripieno di ogni ben di dio. Logico, quindi, che fosse proprio Tubelli a condurre al Salone del Gusto di Torino il laboratorio dei Master of Food dedicato a “Paste ripiene e timballi”: oltre tre ore di sapienza culinaria ed esercitazioni pratiche per gustare, alla fine, un piatto dal gusto al tempo stesso antico e familiare.

Guai, però, a pensare che la “cucina contro gli sprechi” sia solo un modo per risparmiare in tempi di crisi, e guai anche a scegliere i termini sbagliati per descrivere il fenomeno: “A me non piace parlare di avanzi – sottolinea subito Tubelli – l’avanzo è qualcosa che resta nel piatto perché non si ha voglia di mangiarlo, e rimetterlo in giro non va bene. Altra cosa è se si riscoprono parti di cibo che normalmente non vengono utilizzate, come il gambo del carciofo: questo presuppone una conoscenza profonda di quello che si sta preparando, ti riporta subito alla realtà delle cose. E non mi piace nemmeno che si leghi questo tipo di cucina alla contingenza dell’attualità: per me è una consuetudine che deriva da una storia ricchissima di piatti derivati dallo sprigionare della fantasia. Parliamo di fantasia perché si tratta di utilizzare parti di verdure, ortaggi, carni, dando loro forme gastronomiche che fino a quel momento non hanno avuto. Fantasia e non creatività, che non appartiene all’umano ma a qualcosa di diverso”. E già che ci siamo, aggiunge Tubelli, “io ci tengo a definirmi un cuoco perché quella è la mia funzione, mentre quello di “capo” è solo un titolo. Anche un ingegnere penso si presenti come ingegnere, non come capo del suo studio di ingegneria…”.

Chiarito il contesto, si può entrare nel dettaglio, e Tubelli lo fa con incantevole arte affabulatoria: “Nei ristoranti si può fare cucina contro gli sprechi e lo si fa da sempre. La gran parte dei ravioli sono nati riutilizzando le carni degli stracotti e facendo delle grandi farcìe; ma si possono anche fare dei potage di verdura con la costa centrale della verza, col gambo del carciofo. Io ho fatto degli involtini molto buoni di pesce azzurro avvolti nella foglia di barbabietola rossa. Naturalmente bisogna dichiarare al cliente quello che si sta usando, non usare sotterfugi o piccole furbizie”. Anche perché il cliente, a sua volta, può imparare qualcosa: “Certo, questo tipo di cucina apre anche alla curiosità, può aprire anche le menti delle persone a un mondo a cui loro non pensavano. Ci sono erbe veramente straordinarie che nessuno usa, come il ciuffo della carota o quello del ravanello, che possono dare profumi e sentori a grandi insalate, oppure possono sostituire gli spinaci nella farcitura dei ravioli”.

Si potrebbe continuare per ore a parlare del recupero dei capisaldi dell’antica cucina, come la manualità nella preparazione (“Si torna all’uomo come protagonista nella definizione e nella procedura di un piatto. Comporre un timballo così mi ha emozionato”). Il tempo però è tiranno, e allora meglio andare a cercare il cuoco (!) Tubelli nel suo locale: più che un ristorante una bottega gastronomica, tre tavoli che la sera diventano otto per il “Cen’otto”, da prenotare con largo anticipo. “Abbiamo recuperato le specialità della vecchia bottega di strada dove si faceva il maccherone, da mangiare con le mani: la radice di quello che nei tempi moderni è il finger food”. E il “tempura” nel nome è un’ingannevole nota esotica, che in realtà richiama gli antichi fritti di strada: “La parola nasce dal latino, quindi l’origine di questa formulazione gastronomica è nella nostra cultura”. Non si finisce mai di imparare.

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Voci dal Salone: Un brindisi con La Zia Ale

“Scusi, è qui la Fiera della Birra?”. Un errore quasi veniale per i visitatori dell’edizione 2012 del Salone del Gusto, che tra uno stand e l’altro hanno visto spuntare come funghi decine di birrifici artigianali: lo specchio di quanto avviene nel paese, che nel giro di pochissimi anni ha scoperto un’insospettata vocazione birraria, trasformando migliaia di bevitori di Nastro Azzurro (absit iniuria verbis) in raffinatissimi selezionatori di pils e pale ale. Ma la gran moda della birra fai-da-te non rischia di portare il mercato alla saturazione? Non la pensa così Andrea Fralleoni, titolare della Free Lions Brewery di Tuscania, provincia di Viterbo: “Non siamo ancora arrivati a questo punto. Per il momento la grande diffusione del nostro prodotto ha solo aspetti positivi: effettivamente in ogni angolo del Salone si vede un espositore o un birrificio, e oltretutto ne mancano ancora tanti all’appello, anche fra quelli molto importanti a livello produttivo e di qualità. È un modo per mostrare al pubblico, e non soltanto agli esperti, che esiste un prodotto diverso da quelli di massa. Nei primi due giorni del Salone almeno la metà delle persone che si sono avvicinate al nostro stand non conoscevano per nulla la birra artigianale, o la conoscevano solo parzialmente: poterla presentare e spiegare è un fatto davvero positivo per tutto il movimento”.
Certo, qualche problema di concorrenza inizia a esserci: “La distribuzione delle birre – ammette Fralleoni – è molto legata ai nomi più facilmente spendibili, i birrifici nuovi fanno più fatica a inserirsi nel mercato. L’importante, però, è fare birre di qualità e soprattutto mantenere con costanza la produzione e le ricette. L’interesse da parte della ristorazione e dei locali, anche non specializzati, comincia a essere importante: ci auguriamo che ci sia spazio per tutti”.

Abbiamo intervistato Fralleoni perché il suo birrificio è uno dei promotori del progetto La Zia Ale, uno dei primi esperimenti di quella che potremmo definire “birra diffusa”: “A febbraio 2012 abbiamo fondato l’associazione ABI Lazio insieme ad altri 7 birrifici, con l’obiettivo di promuovere i prodotti del territorio: il disciplinare prevede che almeno il 70% degli ingredienti sia di origine regionale. Con il progetto La Zia Ale ci siamo spinti oltre: ognuno di noi ha creato una birra con lo stesso nome ma dalle caratteristiche diverse, l’unico comun denominatore è il fatto che ben il 90% degli ingredienti viene dal Lazio”.
Di volta in volta, ciascun birrificio ospita dunque una riunione molto speciale: “Le prime cotte le abbiamo fatte insieme – racconta Fralleoni – ritrovandoci per un momento di condivisione e di approfondimento. A oggi sono state prodotte 6 versioni: Birra del Borgo ha utilizzato il 100% di malto laziale e, al posto del luppolo, una miscela di cicoria, puntarelle e tarassaco. Quindi una birra che potrebbe essere considerata medioevale dal punto di vista delle speziature. Birradamare, a Fiumicino, ha introdotto dell’acqua di infusione di carciofi e del rosmarino, aggiunto a fine bollitura. A fine marzo è toccato a noi, che oltre al malto abbiamo anche il luppolo coltivato nel Lazio, grazie alla collaborazione con l’Università della Tuscia; in più abbiamo aromatizzato la birra con fiori d’alloro, per darle un importante carattere balsamico. La birra del Birrificio Turbacci di Mentana è caratterizzata dalla presenza di anice stellato, finocchietto selvatico e avena nera, che le dà una colorazione decisamente scura; quella dell’Itineris di Civita Castellana comprende nella sua ricetta papavero e radice di gramigna. In ordine cronologico l’ultima birra prodotta è quella del birrificio Turan che ha utilizzato a sua volta il luppolo della Tuscia, prediligendo lo stile Kölsch”. Mancano all’appello due birre, quelle dell’Atlas Coelestis di Roma e di Mister Malto a Ferentino: “Dovremmo riuscire a produrle in novembre – conclude Fralleoni – e, come per ogni nuova birra, le riproporremo tutte in degustazioni verticali per valutarle meglio. Sono completamente diverse una dall’altra e tutte molto interessanti”.

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Il paradosso di Farinetti

Dopo la legge di Murphy e la congettura di Fibonacci, eccolo qua il paradosso di Farinetti: tutelare i piccoli produttori attraverso la grande distribuzione. Si può? Si deve, secondo il vulcanico imprenditore piemontese, l’uomo che vendette UniEuro per fondare Eataly, la catena di distribuzione d’eccellenza (e per eccellenza). Sulla scorta del suo esempio, ma anche della crisi galoppante e di una sempre maggiore consapevolezza dei consumatori, in molti stanno cercando una ricetta per uscire dalla dominante standardizzazione dei prodotti e dalla corsa al sottocosto. Se ne è parlato durante il Salone del Gusto di Torino, in una gremita Sala Gialla, nel corso della conferenza “Ripensare la grande distribuzione: è possibile?”. Ospiti, tra gli altri, lo stesso Oscar Farinetti e il presidente di Coldiretti Sergio Marini, ma anche Vincenzo Tassinari (COOP), Fabio Sordi (Auchan), Lorette Picciano della Rural Coalition, associazione di piccoli agricoltori USA, e Hugo Valdes di Cooperativas Sin Fronteras, che ha contribuito a lanciare in tutto il mondo il commercio equo e solidale. La formula vincente la trova il moderatore Bruno Scaltritti (dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo), che descrive la distribuzione alimentare come una “clessidra”: da una parte c’è la galassia dei produttori, dall’altra un numero sterminato di negozi e di consumatori, in mezzo il “restringimento” dei centri d’acquisto. Come superarlo?

Di risposte definitive in questo senso, com’era prevedibile, non ne arrivano. Di suggestioni però sì, e tante. Le più provocatorie sono come sempre quelle di Farinetti: “Questa crisi è proprio quello che ci voleva, ci aiuterà a volare più basso e a essere più umani. Verità e semplicità sono il marketing migliore”. E poi, più pacatamente: “La distribuzione degli ultimi trent’anni ha puntato sempre sui prezzi bassi e mai sul racconto del prodotto. Tutti gli altri beni, dai cellulari alle automobili, si vendono perché sono stati caricati di valore immateriale: solo col cibo non siamo stati capaci di farlo. Ora è il momento della qualità: noi siamo orgogliosi di pagare le carni della Granda il 32% in più. Ed è anche il momento di andare all’estero, visto che il 22% dei cibi consumati in Italia è distribuito dai francesi, mentre noi ci scanniamo per un punto vendita a Cinisello Balsamo…”. Francesi, quindi Auchan. Che però, con Fabio Sordi, rivendica la propria italianità: “Noi vogliamo sostenere i produttori locali, non a caso abbiamo creato una linea ad hoc. Il nostro contributo serve ad aiutarli nell’esportazione, prima di tutto interna, tra le varie regioni d’Italia, e poi oltreconfine, dove potremmo vendere 10 volte tanto”. E Tassinari dice la sua per la COOP: “Siamo a un bivio per la grande distribuzione: prezzo basso a tutti i costi o un percorso legato ai valori? Noi puntiamo sulla seconda strada, la reputazione è importante. Non vogliamo più essere visti come chi fagocita i produttori, vogliamo collaborare con loro”.

Un tema forte è quello dell’identità: il nome del produttore deve comparire sull’etichetta, insieme alla storia e agli ingredienti del prodotto. Non come oltreoceano, dove – racconta Lorette Picciano – “gli ipermercati con i loro marchi hanno contribuito al declino delle comunità rurali. Dobbiamo creare un’alternativa e lottare per stabilire accordi favorevoli ai produttori e scavalcare il labeling attuato dalle grandi catene”. Sergio Marini è più esplicito che mai: “La strategia vincente è provare a raccontare la verità ai cittadini, solo così si aggiunge valore al cibo. Ci piacerebbe che nel momento in cui il prodotto arriva al consumatore finale si potesse chiarire chi e come lo ha coltivato o trasformato”. Anche se poi, soprattutto nei paesi meno sviluppati, c’è chi alla distribuzione non ci arriva nemmeno: “Il problema delle ingiustizie nel commercio non è risolto – dice Valdes – è insostenibile che un produttore riceva soltanto il 10% del valore finale del prodotto. Devono esserci norme molto chiare, fra cui quella sui prezzi minimi, e deve essere evitata la speculazione che decide i prezzi degli alimenti indipendentemente dalla produzione. Abbiamo ottenuto buoni risultati ma non possiamo accontentarci, dobbiamo avvicinarci sempre di più ai consumatori”. E ancora Farinetti chiude il cerchio ragionando sui massimi sistemi: “La civiltà dei consumi ha funzionato da Dio, oggi non funziona più perché è saltato un anello della catena: il lavoro. Dobbiamo mettere tutte le nostre energie sulla forza lavoro: basterebbe, per esempio, eliminare i diserbanti per raddoppiare immediatamente il numero di posti a disposizione. Poi, certo, bisognerà promuovere sul mercato le attività che scelgono questa via. Una proposta? Creiamo un marchio, una mela tricolore, che identifichi tutti i prodotti “puliti”. Vedrete che successo avrà”. E se lo dice lui, c’è da crederci…

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