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Foto da Terra Madre Salone del Gusto 2016

Prima edizione "open air" per Terra Madre Salone del Gusto, il grande evento biennale dedicato da Slow Food all'alimentazione e la nutrizione: le piazze e le vie del centro storico di Torino hanno accolto per cinque giorni sapori e profumi di tutto il mondo. Ecco un piccolo reportage fotografico dell'evento: per saperne di più leggete il nostro articolo La legge del Mercato!


Il Castello del Valentino, porta d'ingresso del mercato


Un messaggio dal Molise...


Bottarga per tutti i gusti dalla Sardegna

Folla per le vie del parco


La Tunisia schiera le Barbie!


Le conferenze di Indigenous Terra Madre Network


Presidi Slow Food sullo sfondo del Borgo Medioevale


Le Cucine della Terra: piatti prelibati dal Madagascar


Ed ecco il piatto servito: carne di maiale con foglie di manioca e riso


Una curiosa specialità da Berlino: l'aglio affumicato


Anche i peluche sono a tema


Un carico di aringhe dai mari del Nord


La presentazione dello Zincarlin della Valle di Muggio


Specialità appetitose dal Messico...

...e dal Giappone (prefettura di Ishikawa)


Lo stand della regione Friuli Venezia Giulia


Birre artigianali ai Murazzi


Le immancabili bombette pugliesi

Gelati DOP lungo via Po

La piramide dei 1000 mieli


Degustazioni all'Enoteca di piazza Castello


Gli stand stanno per chiudere ma il pubblico non manca...


Un graditissimo sold out
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La legge del Mercato

Le rivoluzioni, anche quelle meno cruente, creano sempre uno spartiacque: l’entusiasmo dettato dalle novità si contrappone, in misura variabile, alle recriminazioni dei nostalgici. La rivoluzione di Terra Madre Salone del Gusto, il mega-evento di Slow Food uscito per la prima volta dai padiglioni del Lingotto per riversarsi nelle strade di Torino, non fa certo eccezione: “Niente sarà più come prima”, sarà anche poco originale ma lo dice il presidente Gaetano Pascale, e l’osservazione vale nel bene come nel male. All’indomani della festa torinese, durata dal 22 al 26 settembre con la partecipazione di oltre 7000 delegati di Terra Madre da 143 paesi del mondo, schierarsi è d’obbligo ma non è semplice: malgrado la nostra veneranda età, non vogliamo ancora iscriverci al partito dei reazionari, eppure dobbiamo ammettere che non tutto in questa nuova formula ci è piaciuto.

Di certo c’è che il “Salone fuori” ha riscosso un successo clamoroso, e questo solo un pazzo potrebbe metterlo in dubbio: al momento in cui scriviamo non è ancora disponibile una stima ufficiale sul numero di visitatori, ma nella sola giornata di domenica sono state ampiamente superate le 500mila presenze. Foodies e semplici curiosi, agevolati anche da una serie di strepitose giornate quasi estive, si sono precipitati a migliaia nei luoghi simbolo di Torino per assaggiare, degustare o sbranare, ma soprattutto per acquistare: più di un espositore ha dovuto dichiarare il sold out con largo anticipo e la cosa ha fatto piacere a molti, anche se non a tutti. Anche dal punto di vista “filosofico”, in astratto, l’evento ha rispettato i principi di Slow Food: far conoscere a più persone possibili le eccellenze dell’agricoltura e dell’allevamento nel mondo, sensibilizzare il pubblico su temi fino a qualche anno fa impensabili come biodiversità, land grabbing o consumo sostenibile, uscire dal clan di food blogger e appassionati per rivolgersi direttamente alla massa. Insomma, “affermare che il buono, pulito e giusto è un diritto di tutti e tutti devono poter dunque essere partecipi”, per citare ancora Pascale.

Nella pratica, non sempre le cose sono andate in questo modo. Svincolata dal suo DNA fieristico e aperta al pubblico, la manifestazione ha finito per perdere il suo carattere basato sulla curiosità dell’incontro e sul melting pot di conoscenze e culture, per trasformarsi più banalmente in un gigantesco mercato a cielo aperto. Con un flusso così imponente e incessante di visitatori (specialmente nel Parco del Valentino, letteralmente preso d’assalto), per gli espositori è venuta meno quasi ogni possibilità di raccontare se stessi, la propria storia e il proprio prodotto: qualcuno ci ha provato lo stesso, con ingegno e pazienza, ma la grande maggioranza si è limitata a vendere a scatola quasi chiusa, in un proliferare di panini, aperitivi e piatti degustazione a pagamento. Le stesse aree dedicate alla birra artigianale, allo street food e ai gelati tra piazza Castello, via Po e i Murazzi, pur piacevolissime e di grande qualità, non sono sembrate molto diverse da una qualunque delle kermesse domenicali che ormai nessuna piazza d’Italia si nega. Certo, non sono mancati i momenti più “culturali” come conferenze, mostre e incontri B2B; tutti però circoscritti (giustamente) in location molto specifiche, relativamente lontane dai percorsi del grande pubblico. Nelle passate edizioni del Salone del Gusto poteva capitare, tra una Mortandela della Val di Non e un succo di bergamotto, di infilarsi in una degustazione guidata, assistere casualmente allo speech di un agricoltore del Benin o farsi catturare dalla proiezione di un documentario: la nuova formula, salvo rari casi, ha reso impossibile questo coinvolgente mix.

Detto questo, troppi rimangono i pregi della manifestazione per lasciarsi trasportare dal vortice delle critiche. Il fascino inimitabile dei panorami torinesi, da piazza San Carlo al Po, batte 100 a 1 gli asettici padiglioni di una fiera; il successo delle attività di Slow Food Education, che hanno coinvolto oltre 1800 bambini, dei Laboratori del Gusto, della Scuola di Cucina e delle conferenze (più di 5000 partecipanti) fa ben sperare anche per il futuro. E poi a far saltare il banco, dal nostro punto di vista, c’è la possibilità di scoprire sapori, profumi e tecniche di produzione degli oltre 400 Presìdi Slow Food dall’Italia e dal mondo, saltando liberamente dal capocollo di Martina Franca ai caprini di Capo Verde, dai biscotti armeni al melograno allo Slatko di fichi selvatici, dal salame di Fabriano agli infusi del Rosson, dal Mishavine albanese al gelato di fragolina di Tortona, e così via senza soluzione di continuità. Per non parlare dei piatti internazionali offerti dalle Cucine di Terra Madre, come le foglie di manioca con riso e carne di maiale dal Madagascar: una prelibatezza. Aver messo questo straordinario patrimonio a disposizione del pubblico è un merito di inestimabile valore: la prossima sfida, non meno stimolante, e fare sì che il pubblico lo accolga con consapevolezza e – perché no – con amore, non come una curiosità da weekend o un’ennesima spesa al supermercato.

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Divino Andino

Ci sono libri che ti conquistano ancora prima di averli letti, per il tema e per le suggestioni che evocano: non c'è dubbio che sia questo il caso di "Divino Andino", il racconto del viaggio di Francesco Antonelli attraverso Perù, Bolivia, Argentina e Cile. Un viaggio che, come si può facilmente intuire dal titolo e soprattutto dal sottotitolo "Viaggi e assaggi all'ombra della Cordigliera", ha un carattere prevalentemente enologico o, se si vuole, enoturistico: il lungo percorso dell'autore è una progressiva scoperta della realtà vinicola del Sudamerica, dalle contaminazioni peruviane ai misconosciuti vini d'altura della Bolivia, fino all'apoteosi del Malbec argentino. Ovvio che anche per questo il volume edito da Polaris (269 pagine, 13 €) ci abbia subito colpito, riportandoci alla mente dolci ricordi della nostra visita a Mendoza (vedi il reportage Argentina para principiantes). Ma l'opera di Antonelli è molto di più di un diario o di una guida: lo si potrebbe definire senza timore un romanzo di formazione, se si pensa che l'autore ha passato oltreoceano più di quattro mesi, lasciandosi alle spalle un lavoro da informatico per seguire il cuore, sotto le spoglie della fidanzata di origine peruviana Marisol, e soprattutto il desiderio di avventura.

Il viaggio di Antonelli inizia a fine 2013 e si svolge quasi tutto con mezzi di fortuna o quasi: armato di zaino e di tanta pazienza, l'autore si sposta a bordo di poderosi autobus di linea per raggiungere le meraviglie di Machu Picchu e del Lago Titicaca, ma anche per scoprire le distillerie in cui si produce il pisco, la famosa - e famigerata - acquavite peruviana. Da qui il passaggio in Bolivia, con una puntata nella regione di Tarija dove si producono vini ancora per certi versi misteriosi, e poi la discesa in Argentina lungo la Ruta 40, fino a raggiungere Mendoza, capitale del Malbec. Infine una breve tappa in Cile, a Santiago e Valparaiso. Il tutto per scoprire prodotti peculiari e molto diversi tra loro, come lo stesso autore racconta in un'intervista a No Borders Magazine: "Le caratteristiche dei vini che ho bevuto cambiano molto a seconda delle abitudini dei consumatori del luogo. Ad esempio in Perù, dove il consumatore non è abituato al vino secco, si preferisce sempre abboccato, cioè tendente al dolce. In Argentina e in Cile i gusti sono molto più simili ai nostri, anche per effetto di una maggior contaminazione con l’Europa. I vini boliviani e del nord dell'Argentina sono detti "di altura" perché le viti crescono oltre i 1000 metri di altezza in territori molto particolari: aridi, soleggiati, con notti fresche. Queste caratteristiche danno ai rossi una maggiore concentrazione di sostanze dette fenoliche, che arricchiscono il prodotto finale."

In fondo però, come dice la bella prefazione di Giorgio Melandri, "il vino è un pretesto, è come sempre l'anima di una trama che parla soprattutto di uomini". E infatti Divino Andino pullula di personaggi, dagli autoctoni ai viaggiatori, tutti accomunati da un atteggiamento cordiale e disponibile nei confronti del prossimo. Per citare ancora la prefazione: "Antonelli è un cronista senza le malizie del mestiere e ci prende per mano per migliaia di chilometri, ci accompagna per strade improbabili e lascia parlare tutti, senza una vera e propria gerarchia, perché solo in America Latina i perdenti sono così vincenti". Di sicuro a qualcosa il viaggio è servito: da circa un anno l'autore ha aperto un'enoteca a Ravenna, trasformando la sua passione in una ragione di vita!

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Foto da Vinitaly 2016

La rassegna enologica più importante e attesa al mondo ha celebrato quest'anno la sua cinquantesima edizione, dal 10 al 13 aprile a Verona. Come al solito abbiamo portato a termine la nostra visita-lampo: ecco le immagini più rappresentative che abbiamo catturato. Per saperne di più leggete il reportage Tutti i colori del vino!


Una veduta panoramica dell'ingresso durante la visita di Matteo Renzi

Tutte le tonalità del Chiaretto...


...ed eccole trasposte in bottiglia


Lo stand dedicato ai vini della Valtellina


La celebrazione della 50° edizione


Le cantine Papalino dalla Tuscia viterbese


Il padiglione "social" del Veneto


Degustazioni in corso


La Spagna è ben rappresentata dalle Bodegas Cialu


La colorata esposizione dello stand Zaccagnini


La vetrina del Magliocco calabrese presentata dal consorzio Terre di Cosenza


Il pittoresco stand di "Le vigne di Alice"


Un messaggio di amore per il vino


I vini dei Custodi dell'Etna


Lo stand di Inama con i suoi prodigiosi vini Carmenère (e non solo)
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Tutti i colori del vino

Lo dice la saggezza popolare sul vino di qualità: più invecchia, più diventa buono. Sarà vero anche per i il Vinitaly? Lo scorso 13 aprile a Verona si è conclusa la cinquantesima edizione della più celebre rassegna vinicola internazionale: non avendo partecipato per ragioni anagrafiche a nessuna delle prime 40, lanciarsi in un confronto generazionale sarebbe perlomeno presuntuoso. Basta però un viaggio nel passato molto più breve per notare qualche cambiamento macroscopico: chi si sarebbe mai aspettato, anche solo un decennio fa, che la rassegna veronese ospitasse nientemeno che un Presidente della Repubblica? Chi avrebbe mai pensato di veder comparire nei padiglioni della fiera gli stand dei viticoltori cinesi o azeri, o anche soltanto ipotizzato che persino la più sperduta cantina del Molise si sarebbe dotata di sito ufficiale, pagina Facebook, account Twitter e Instagram e QR Code? D’altro canto ci sono anche cose che sono rimaste esattamente identiche a se stesse, e non tutte piacevoli: per esempio il dramma della viabilità, con code chilometriche (purtroppo sperimentate personalmente) a tutti gli ingressi della città e bus navetta costretti a districarsi nel traffico selvaggio, nonostante i divieti.

Che cosa resta dunque del cinquantesimo Vinitaly? Non c’è dubbio che l’edizione 2016 sia stata contraddistinta nel bene e nel male del presidente del Consiglio, fischiato e contestato al suo ingresso ma anche protagonista di un intervento particolarmente incisivo: Matteo Renzi ha parlato di obiettivi ambiziosi (50 miliardi di export per il 2020, partendo dagli attuali 36,9) e del tema della valorizzazione del Made in Italy, carissimo alla sua amministrazione. Punti di vista in gran parte condivisibili, certo non facili da trasformare in azioni concrete: l’annuncio di una “giornata del vino” indetta per il 9 settembre dalla piattaforma di commercio elettronico Alibaba non è poi così entusiasmante. Lo sono sicuramente di più, dal punto di vista dell’organizzazione, i numeri di questo Vinitaly: i visitatori, per la prima volta da tempo immemorabile, sono in calo (130mila quelli dichiarati), ma questa non è certo una brutta notizia se si considera l’evidente volontà di restringere gli accessi, anche con una politica di prezzi molto più “aggressivi”. Il dato che davvero colpisce è quello dei 50mila operatori stranieri da 140 diverse nazioni, a cui si affiancano 4.100 espositori, 28mila buyer dai mercati internazionali (in aumento del 23% rispetto all’anno scorso), 29mila presenze agli eventi del “fuori salone” Vinitaly and the City, oltre 100mila mq di spazi espositivi, che fanno di quello veronese il primo evento al mondo per superficie occupata.

Per il visitatore, profano o addetto ai lavori, tutto questo implica nel complesso poche novità, e più che altro l’acutizzarsi di tendenze in atto. La fiera vira sempre più al business, con meno lustrini e paillettes e più concretezza; gli espositori appaiono più preparati e professionali, anche se (in alcuni casi) più freddi e meno empatici; si intensifica la presenza di consorzi e associazioni di settore, che sicuramente facilitano l’eno-curioso alla ricerca di nuovi sapori ma, d’altro canto, rischiano di limitare il contatto diretto con i viticoltori e con le loro storie. Per rivivere un po’ dello spirito del vecchio Vinitaly (quello di cinquant’anni fa?) bisogna visitare le aree dedicate a VinitalyBio e ViViT (Vigne, Vignaioli e Terroir): piccole, affollatissime, caotiche ma anche più “divertenti”, forse per la presenza di produttori molto numerosi, spesso in stand condivisi e con una forte vocazione all’assaggio.

Dal punto di vista strettamente vinicolo, per quel poco che possiamo giudicare, il mercato sembra in fase di assestamento dopo un periodo di grandi mutazioni: continuano comunque ad emergere nuove varietà finora poco conosciute, come il Magliocco calabrese, promosso dal consorzio Terre di Cosenza Dop che raggruppa una quarantina di aziende del territorio, o la nuova DOC Roma, istituita nel 2011. E rispetto al passato diventa molto più rilevante e strutturata la presenza di produttori stranieri, in particolare dalla Spagna ma anche da Georgia, Serbia, Portogallo, Australia e naturalmente Francia, Sud Africa e Argentina. Di cosa sia accaduto al settore vinicolo negli ultimi 50 anni si è parlato anche in un convegno dal titolo “Cantine e vigneti, consumi e mercati”, organizzato dall’Osservatorio del Vino. Una ricerca complessa e articolata (scaricabile qui) i cui risultati si possono riassumere, in estrema sintesi, nel passaggio del vino dal campo delle commodities – beni disponibili sul mercato in qualità standardizzata e senza distinzione di produttore, come la benzina o, in campo alimentare, il sale e lo zucchero -  a quello delle specialities. Poche parole per descrivere una trasformazione epocale…

Come ogni anno chiudiamo il nostro reportage con una (purtroppo) breve rassegna sulle cantine visitate al Vinitaly e sui loro prodotti principali, da prendere come sempre con beneficio d’inventario.

Inama – San Bonifacio (VR): Gli eredi di Giuseppe Inama, attivo dagli anni Sessanta sulle colline del Soave, hanno dato vita a una serie di vere e proprie perle vinicole: unici nel loro genere i rossi da vitigno Carmenere, come il Più e lo straordinario Oratorio di San Lorenzo, prodotto solo nelle migliori annate e affinato in barrique per 18 mesi. Di grande carattere il Bradisismo (Cabernet e Carmenere). Da non perdere anche i bianchi: il Soave Vigneti di Foscarino e l’intenso e profumato Vulcaia Fumé (Sauvignon in purezza).

Moretti Omero – Giano dell’Umbria (PG): Pioniera dell’agricoltura biologica fin dai primi anni Novanta, la famiglia Moretti produce anche olio extravergine e grappe. Il vino principe è ovviamente il Sagrantino, soprattutto nell’eccezionale varietà Vignalunga: prodotto solo nelle migliori annate, ha almeno 3 anni di affinamento e nonostante i 15 gradi è piacevole e non troppo “aggressivo” al palato.

Nunzio Ghiraldi – Lugana di Sirmione (BS): L’attività di questa azienda familiare è tutta concentrata nella produzione del meritatamente famoso Lugana Il Gruccione: fruttato ed elegante il Lugana DOC, eccezionalmente profumato e speziato il Lugana Superiore.

Papalino – Castiglione in Teverina (VT): Nel cuore della Tuscia viterbese un’azienda con oltre 50 anni di storia alle spalle, ma apertissima a innovazioni e sperimentazioni. Tra queste c’è l’ottimo Grechetto Ametis, decisamente più convincente nella versione dell’annata 2014, molto intensa e dal caratteristico colore giallo paglierino. Nessun dubbio invece sul Rosso del Lazio Senauro, maturo e profumato, affinato per 12 mesi in barrique.

I Custodi delle Vigne dell’Etna – Castiglione di Sicilia (CT): Sull’Etna la vite è coltivata da secoli, ma solo recentemente sono stati “riscoperti” gli ottimi vini locali. Esuberante il bianco Ante, blend di Carricante, Minnella e Garganico; unico nel suo genere il rosato Alnus, da uve Nerello Mascalese e Nerello Cappuccio; straordinario l’Etna Rosso Aetneus, che nasce da vigneti di quasi 150 anni di età e viene invecchiato per oltre 2 anni in barrique usate.

Masseria Falvo 1727 – Saracena (CS): Ospitata come suggerisce il nome da un’antica masseria, questa cantina deve la sua fama al tradizionale Moscato di Saracena, ma si fa notare anche per il Don Rosario, un ottimo Magliocco invecchiato per 14 mesi.

Tenute del Garda – Lonato del Garda (BS): Un consorzio di recente fondazione, nato per valorizzare i vini della Valtenesi: particolare successo stanno ottenendo l’originale Brut da uve Riesling e il Brut Rosé, insieme al classico Chiaretto, fresco ed elegante.

Terra Fageto – Pedaso (FM): A pochi passi dall’Adriatico, 40 ettari di terreno per produrre i tipici vini marchigiani, come il profumato Pecorino Fenèsia. Tra i rossi ottimo il Serrone, blend di Cabernet Sauvignon e Merlot affinato per un anno in barrique.

Tinazzi – Lazise (VR): Doppia anima, veneta e pugliese, per questa grande azienda vinicola che negli anni ha acquisito terreni e vigneti anche in Salento, a Carosino e San Giorgio Jonico. Premiatissimi i suoi vini, dal Primitivo LXXIV del Feudo di Santa Croce alla robustissima e complessa Malvasia Nera Tiranno.

La Perla – Tresenda di Teglio (SO): Giovane cantina valtellinese che vanta una produzione ristretta ma di grande qualità: da uve Nebbiolo derivano il Valtellina Superiore La Mossa e l’eccellente Sforzato Quattro Soli, a cui si aggiunge l’originale Extra Brut da uve Pignola.

Cantina Colonnella – Colonnella (TE): Pochi fronzoli e tanta sostanza per questa cantina abruzzese che deve la sua fortuna allo straordinario Barocco, Montepulciano d’Abruzzo riserva invecchiato per oltre 3 anni, e all’intensissimo Controguerra Cinque Colli. Da segnalare anche le bollicine del fresco e originale Passerina Brut Le Rue.

Cundari – Figline Vigliaturo (CS): Di questa cantina cosentina ricordiamo qui soprattutto l’ottimo Don Filippo, un Donnici Rosso Doc (Magliocco e Greco Nero) affinato in barrique per 12 mesi, robusto e di notevole struttura.

Tenuta Celimarro – Castrovillari (CS): Una cantina giovanissima, operativa dal 2013, che ha dato vita a un Magliocco ancora giovane, ma intenso e brillante.

Gotto d’Oro – Marino (Roma): La creazione della nuova DOC Roma è stata un grande veicolo di promozione per questa cantina, che ha lanciato sia un interessante bianco, profumato e armonico, sia un rosso con buone potenzialità ma apparentemente ancora troppo giovane.

Bodegas Cialu – La Rioja (Spagna): Con 40 ettari di vigneto e circa 70mila bottiglie di produzione annua, questa cantina iberica si autodefinisce “piccola”… Sicuramente la sua produzione è più che selezionata: tre tipologie di vino Rioja, joven (giovane), Crianza (invecchiato per 14 mesi in barrique e un anno in bottiglia) e Reserva (36 mesi in barrique e un anno in bottiglia), quest’ultima decisamente notevole per profumi e struttura.

Aleksandrovic – Topola (Serbia): A un’ottantina di km da Belgrado sorge questa rinomata cantina di respiro internazionale: particolarmente noti nella sua produzione il rosé Varijanta, con un caratteristico aroma di fragoline selvatiche, e il rosso barricato Vizija, un blend di Cabernet Franc e Cabernet Sauvignon.

World of Flavours – Ornago (MB): Abbiamo già citato più volte questo noto importatore specializzato in vini argentini. Tra i più interessanti segnaliamo naturalmente due Malbec: il classico Paz della Finca Las Moras, di San Juan, e quello più sofisticato della cantina Escorihuela Gascon di Mendoza, derivato da un blend delle uve di due diversi vigneti.

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