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Foto da Madrid

Alcune immagini del viaggio a Madrid (19-23 gennaio 2011) e delle sue prelibatezze gastronomiche. Ulteriori immagini nella recensione del Restaurante La Finca de Susana.


Museo del Jamon: un punto di ristoro imperdibile


L'interno del Museo


Il piatto tipico della taverna "Los Huevos de Lucio"


Chocolate con churros al San Ginès
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Paura del luppolo

Diciamolo subito: impossibile che venga mai tradotto in italiano. Magari con un po' di fortuna ci sarà prima o poi la possibilità di vederlo con sottotitoli un po' meno scarni di quelli realizzati in occasione della proiezione avvenuta a Monza, durante la manifestazione Carrobiolo in Fermento. Ma vale comunque la pena di procurarsi in qualche modo una copia di Beer Wars, il documentario sul mercato americano della birra realizzato nel 2008 da Anat Baron.
Certo, siamo di parte: nel corso del nostro recentissimo LocusTour negli Stati Uniti, abbiamo potuto constatare di persona, e pur senza avere - colpevolmente - alcun background culturale sull'argomento, lo straordinario e crescente successo delle birre artigianali, documentato anche nella nostra sommaria guida ai ristoranti negli USA. Anzi: il documentario si apre proprio con le interviste a una serie più o meno casuale di consumatori che tracannano boccali di Samuel Adams, Fat Tire, Anchor Steam o Blue Moon, insomma tutte le varietà di birra da noi assaggiate (e qualcosa in più) nel corso del nostro viaggio.
Non che la nostra testimonianza diretta forse necessaria per aggiungere motivi d'interesse al film: l'inchiesta è godibilissima e frizzante, malgrado il ritmo cali un po' nella seconda parte, e soprattutto offre un punto di vista inedito su un settore che tutti gli appassionati della bevanda di Gambrinus farebbero bene a tenere d'occhio nei prossimi anni. Secondo esperti del calibro di Lorenzo Dabove, in arte Kuaska (il più conosciuto degustatore italiano di birra), i birrifici artigianali stanutitensi stanno infatti in molti casi superando quelli europei per creatività, innovazione e qualità del prodotto. Certamente lo hanno fatto da tempo sul piano delle quantità: come si sa "everything is bigger in America", e quindi dal desolante scenario degli anni Settanta, in cui tre grandi gruppi si dividevano l'intera torta, siamo passati oggi a un brulicare di aziende considerate "micro", che da noi sarebbero giudicate giganti industriali. Non si tratta di una novità assoluta, naturalmente: a inizio secolo la birra artigianale era praticamente un must in tutte le fattorie degli USA, poi venne il proibizionismo e, alla ripresa del commercio ufficiali, le multinazionali - quasi tutte arrivate dall'Europa - presero a fare il proprio mestiere, cioè a fagocitare e assorbire qualsiasi piccolo produttore che osasse opporsi al loro predominio.

Il documentario della Baron - ex produttrice di Hollywood, consulente, executive di una catena alberghiera e soprattutto manager di "Mike Hard's Lemonade", diffusissimo drink alcolico - ha il pregio e il difetto di rappresentare un punto di vista totalmente esterno al settore birrario: da una parte, quindi, racconta lo stato dell'arte con piglio giornalistico e divulgativo, dall'altro calca un po' troppo la mano sul tema "Davide contro Golia", attaccando frontalmente il gigante Anheuser-Busch e prendendo fin troppo esplicitamente le parti dei "piccoli" birrai artigianali. Certo, le argomentazioni dell'autrice sono stringenti e spesso è difficile non condividerle: la distribuzione della birra, per esempio, è organizzata a uso e consumo delle grandi industrie, che mirano a soffocare qualsiasi iniziativa privata, producono birre standardizzate dall'aroma indistinguibile, fanno incetta di marchi locali o d'importazione e, naturalmente, formano una lobby che è tra i principali finanziatori delle campagne elettorali e degli eventi sportivi di maggiore audience. Ma al di là di ogni giudizio morale sulle "cattive" multinazionali, ciò che colpisce è constatare quanto sia vivo nel mercato USA l'interesse per una diversificazione del prodotto-birra, esattamente l'opposto di quanto normalmente si imputa all'alimentazione d'oltreoceano e, potremmo dire, all'american way of life in generale. Il consumatore, è inequivocabile, quando ha gli strumenti per farlo punta con decisione sul prodotto di qualità, rifiutando la serialità e la standardizzazione. Parliamo sempre di una piccola fetta del mercato - il 5%, comunque molto rilevante in valori assoluti - ma non è poco, visto l'impressionante squilibrio delle forze in campo, e la tendenza è in qualche modo rassicurante.
È una situazione che, d'altronde, conosciamo bene: in Italia l'esplosione delle birre "autoprodotte", dopo decenni di Nastro Azzurro o di Wuhrer (con tutto il rispetto), è un fenomeno degli ultimi quindici anni. E chissà che il risveglio dei birrai americani non possa generare, come di solito accade, un ulteriore impulso per tutto il settore a livello mondiale...


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Voci dal Salone: I miracoli di San Daniele

Se c'è un argomento su cui le Locuste possono dire di aver accumulato una certa esperienza, quello è il prosciutto: a testimoniarlo ci sono le foto delle ormai innumerevoli edizioni di Ora ProSciutto, la nostra grande festa dedicata appunto al salume per eccellenza. Certamente, però, le nostre modalità di consumo poco ortodosse non corrispondono alle tecniche di taglio e conservazione ideali, illustrate impeccabilmente da Michele Leonarduzzi, ispettore del Consorzio del Prosciutto di San Daniele, nel corso di un interessante laboratorio tenutosi durante l'ultima edizione del Salone del Gusto. In sintesi, i consigli sono tre: tagliare ovviamente a mano, con un coltello lungo e sottile; iniziare dalla culatta, la zona più larga del prosciutto; tenere in alto la parte più grassa perché il peso del grasso (che deve essere abbondante per assicurare la qualità e la dolcezza) spinga la fetta verso il basso. E poi conservare il prosciutto avanzato (sempre che ne avanzi!) cospargendolo con un filo d'olio e ricoprendolo con un panno, se non c'è la possibilità di metterlo sottovuoto. "Tutto giusto - confida Leonarduzzi - ma c'è un trucco ancora più semplice: fare le fette corte. Anche se non si riesce a tagliare il prosciutto molto sottile, è sufficiente che le fette siano brevi perché venga comunque apprezzato". Più sorprendente l'altra "confessione" dell'ispettore del Consorzio: "Di fatto la differenza tra Parma e San Daniele è minima: le cosce provengono dagli stessi allevamenti, circa 3200, e anche i controlli vengono effettuati insieme. Poi ci sono due diversi metodi di lavorazione: noi teniamo il prosciutto sotto sale un giorno per ogni chilo di peso (la coscia pesa generalmente dai 12 ai 17 kg, n.d.r.), mentre loro dosano il sale, quindi molto dipende dall'abilità del salatore, che è una figura molto importante a Parma. Noi, inoltre, pressiamo il prosciutto avvicinando le fibre muscolari, quindi il nostro prodotto ha una carne più consistente rispetto al loro, che risulta più morbido. Però alla fine, al di là dell'aspetto estetico e quindi della presenza o meno dello zampino, le differenze sono poca cosa". Cambiano, aggiungiamo, anche i volumi di produzione: oltre 9 milioni di prosciutti annui a Parma, mentre in Friuli ci si ferma alla rispettabile cifra di 2,5 milioni circa.

Ma come si fa a mantenere elevato il livello del prodotto con numeri così imponenti? "I controlli danno buone garanzie. Certo, è naturale che chi elabora 200 cosce a settimana le segua più attentamente di chi ne fa 5000, perciò il grande produttore tende a standardizzare il prodotto, mentre il piccolo punta sulla qualità anche a scapito della standardizzazione, quindi a volte si ritrova con prosciutti eccezionali e altri sotto la media. Le piccole aziende, inoltre, tendono a fare esperimenti particolari, magari andando al limite della salatura, e possono anche finire fuori dalle regole imposte dal disciplinare. Un esempio può chiarire il tutto: una volta, quando non c'erano le celle di refrigerazione, a San Daniele si salava solo d'inverno. D'estate venivano prodotti dei prosciutti buonissimi, con profumi eccezionali, però il numero degli scarti rispetto ad allora è diminuito in maniera incredibile". Insomma, la standardizzazione elimina le punte più alte ma anche quelle più basse, come spesso accade; si tratta però di un processo indispensabile anche per soddisfare l'enorme richiesta dall'estero. "Abbiamo un mercato importante - spiega Leonarduzzi - sia in America, sia in Giappone, dove il nostro prodotto è molto apprezzato; e poi in Europa, anche se bisogna fare un distinguo. In Francia, infatti, il prosciutto piace perché la cultura enogastronomica è molto simile alla nostra; in Germania invece il successo è legato all'amore per i prodotti italiani in sé, quindi c'è il rischio che qualcuno ci copi e dia il nome di San Daniele ad altri prosciutti".

Un altro pericolo, forse non così remoto, è che i gusti degli acquirenti stranieri possano modificare le modalità di produzione: "Questo lo evitiamo grazie ai controlli, per fortuna il Consorzio impone regole che sono identiche per i piccoli e i grandi produttori: il test sulle materie prime, ad esempio, viene effettuato sempre sul 50% delle produzioni. Si cerca in tutti i modi di standardizzare anche in questo senso. Poi è naturale: se fanno i soldi falsi, magari qualcuno fa anche il San Daniele falso, è già successo". Infine il Salone del Gusto: le piccole aziende lo trovano fondamentale per farsi conoscere, ma un marchio già noto quali benefici può trarne? "Tantissimi - risponde convinto Leonarduzzi - perché le fiere di settore possono servire, ma alla fine quello che conta è il parere del pubblico. Il Salone ci permette di raggiungere innanzitutto le scuole, i bambini, che bisogna educare fin da piccoli a riconoscere il gusto delle cose buone. Mio figlio la sera quando torna da scuola mi chiede spesso: mi affetti del prosciutto? Giuro che non gliel'ho imposto, è lui a chiederlo e io glielo dò volentieri, piuttosto che lasciargli mangiare merendine o... altre cose che non nomino".

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Voci dal Salone: La Lombardia è in forma

Lombardia, terra di formaggi: sembra strano a dirsi, ma per lo meno dal punto di vista qualitativo la regione più industrializzata d'Italia deve moltissimo a un'attività "arcaica" e bisognosa di spazi aperti come la pastorizia. Il paradosso, in realtà, è solo apparente, perché molti degli eccellenti latticini della regione sono andati a un passo dalla definitiva sparizione prima di essere riscoperti e titolati: degli 8 prodotti lombardi tutelati dal Presìdio Slow Food, infatti, ben sei sono formaggi. E non fanno eccezione gli ultimi due arrivati, che hanno festeggiato la loro "prima" in pubblico proprio in occasione del Salone del Gusto 2010 a Torino: vengono entrambi dalla provincia di Bergamo, si chiamano Agrì di Valtorta e Stracchino delle Valli Orobiche. Il termine Stracchino identifica tradizionalmente un formaggio fresco, derivato dal latte di animali "stracch", cioè stanchi per la transumanza dalla pianura agli alpeggi, e per lo stesso motivo veloce da preparare, dato che le soste erano di breve durata. Con il tempo si svilupparono qualità particolarmente raffinate di questo formaggio, come il Taleggio, oggi di fatto un prodotto industriale; sono però sopravvissute piccole oasi in cui lo stracchino è ancora preparato con metodi artigianali, come la Val Brembana e le altre tre che in essa confluiscono (Valle Imagna, Val Serino e Val Taleggio). "Questo formaggio stava scomparendo - spiega l'affinatore Oliviero Manzoni - poi, insieme alla Condotta Slow Food delle Valli Orobiche, siamo riusciti a trovare qualche produttore isolato che ancora se ne occupava, e ora speriamo di rilanciarlo. La particolarità dello Stracchino, ovviamente da non confondersi con le varietà industriali a pasta bianca che si trovano nei supermercati, è che la lavorazione avviene a crudo; la cagliatura viene effettuata immediatamente dopo la mungitura, quindi si sfrutta il calore corporeo della mucca e non c'è bisogno di riscaldare il latte. E poi è un formaggio che si presta alla stagionatura veloce, dopo una ventina di giorni si ottiene già un prodotto di ottima qualità". Proprio come una volta, insomma.

Ma non è tutto qui: come tutti i prodotti artigianali, anche lo Stracchino delle Valli Orobiche ha una forte tendenza a evitare la standardizzazione. Gli esemplari che vedete nella foto a fianco, ad esempio, sono apparentemente molto diversi tra loro ma, come spiega ancora Manzoni, "in realtà hanno tutti lo stesso tipo di stagionatura, 25-30 giorni. La differenza la fa il produttore: ad esempio il formaggio un po' più scuro è "scappato", cioè ha preso più freddo degli altri, e poi c'è la mano del casaro che ci mette del suo. Anche l'alimentazione delle mucche è leggermente diversa: certo, il disciplinare di produzione che abbiamo predisposto è abbastanza rigido, ma l'erba cambia molto da una zona all'altra e di conseguenza anche il sapore del formaggio non è mai lo stesso". Una caratteristica indubbiamente affascinante, in tempi di alimenti prodotti in serie e assolutamente indistinguibili. L'unico handicap dello Stracchino bergamasco, per il momento, sta nelle bassissime quantità prodotte: "C'è davvero molto poco - ammette Oliviero Manzoni - l'unica realtà di una certa dimensione è un caseificio di Valtorta che lavora il latte di una decina di produttori. Per il resto ognuno ha mediamente una decina di mucche, il che significa non più di quattro o cinque stracchini al giorno. Il nostro obiettivo è incentivare la produzione, ma non a discapito della qualità: basterebbe convincere alcuni produttori di latte, che oggi lo rivendono a prezzi bassissimi, a iniziare questa attività che potrebbe essere fonte di un nuovo tornaconto".

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Voci dal Salone: Alessandria "magna"

Ogni festival che si rispetti ha anche le sue "stelle": in questo caso tra le più brillanti c'è Andrea Ribaldone (a destra nella foto), chef del ristorante La Fermata di Spinetta Marengo, premiato per l'appunto con una prestigiosa stella dalla guida Michelin. Nei cinque giorni del Salone del Gusto 2010 Ribaldone si è trasferito, armi e bagagli, allo stand della Provincia di Alessandria, dove ha ospitato di volta in volta nomi di spicco della ristorazione italiana e mondiale come il grande Ferran Adrià e, soprattutto, ha proposto a un pubblico di giornalisti ed esperti del settore un menu di alta cucina preparato "a vista" con le attrezzature fornite da Scholtès, marchio di punta nel settore degli elettrodomestici da cucina. Nel corso della rassegna ben 400 persone (tra cui anche le Locuste!) hanno così potuto gustare una serie di piatti incentrati su ingredienti di prima qualità del territorio alessandrino, come le carni della Cooperativa Valli Unite, e abbinate con i vini DOC della zona. Questo il menu che abbiamo testato personalmente: pane con salame Nobile del Giarolo, coscia di manzo battuta al coltello con erbe e cagliata di latte ovino, gnocchi di Patata dei Colli Tortonesi con barbabietole, acciughe e spinaci (nella foto sotto), lingua di vitello razza Fassone alla griglia con semolino dolce, composta di frutta e verdura alessandrina con sorbetto all'uva, con degustazioni di Gavi, Gavi Spumante, Dolcetto d'Ovada e Moscato d'Asti. Come si può vedere, una cucina raffinata e d'alta scuola che unisce gli ingredienti della tradizione a tecniche e preparazioni innovative: "Mi piace l'idea che la cucina abbia un legame forte con la materia prima del territorio - dice Andrea Ribaldone - ma comunque siamo cuochi moderni, viviamo nella nostra epoca e ci piace guardare al futuro. Con Ferran Adrià, che considero un maestro, abbiamo detto proprio questa cosa: la modernità a volte può essere sconcertante, ma sicuramente è l'unica via. Ma le due cose - ci tiene a sottolineare lo chef alessandrino - non sono scindibili: senza materia prima di qualità non c'è cucina. Una volta si diceva che "il cuoco aggiusta", invece non aggiusta un bel niente, si limita a trasformare; fa abbinamenti, crea accostamenti, ha la capacità della cottura, possiede le tecniche per capire come utilizzare al meglio ingredienti che di per sé sono già molto buoni".

Stupisce tuttavia, naturalmente in negativo, che in un paese così ricco di risorse e alimentato da un tale interesse per il cibo (il Salone stesso lo dimostra) continui a prosperare, soprattutto in alcune regioni, una cattiva ristorazione, caratterizzata da scarsa attenzione alla qualità e anche da scarso rispetto per il cliente. Da dove ripartire per mantenersi, o tornare, su alti livelli? "Sicuramente - è la risposta di Ribaldone - bisogna mangiare, assaggiare la cucina degli altri, i prodotti del territorio; e soprattutto bisogna ricominciare dalle scuole, insegnando ai ragazzi desiderosi di diventare cuochi e camerieri che l'onestà intellettuale è indispensabile, innanzitutto nei confronti di se stessi. Usare prodotti di scarsa qualità non è interessante neanche per chi lo fa; si può fare grande cucina con grandi prodotti spendendo poco". Eppure non sono pochi gli esercenti che puntano al guadagno immediato con metodi alquanto discutibili: "Quest'idea tutta italiana della furberia ha veramente stufato - attacca Ribaldone - e ci sta facendo perdere molti punti anche con gli stranieri, perché essere furbi in cucina o nell'accoglienza non porta da nessuna parte, non c'è risultato. A mio parere ci vorrebbe un albo professionale serio: io non andrei mai da un medico che fino a sei mesi prima faceva il commercialista, e in fondo con la ristorazione è lo stesso, perché chi è ristoratore ha a che fare con le salute delle persone, non può improvvisarsi nel suo ruolo. Ci vogliono scuole che seguano chi vuole avvicinarsi al settore, per avere garanzie della qualità dei prodotti e della formazione: oggi abbiamo le leggi più incasinate d'Europa, con il risultato che alla fine non vengono mai rispettate".

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