Foto da Madrid
Alcune immagini del viaggio a Madrid (19-23 gennaio 2011) e delle sue prelibatezze gastronomiche. Ulteriori immagini nella recensione del Restaurante La Finca de Susana.![]() Museo del Jamon: un punto di ristoro imperdibile |
![]() L'interno del Museo |
![]() Il piatto tipico della taverna "Los Huevos de Lucio" |
![]() Chocolate con churros al San Ginès |
Paura del luppolo

Certo, siamo di parte: nel corso del nostro recentissimo LocusTour negli Stati Uniti, abbiamo potuto constatare di persona, e pur senza avere - colpevolmente - alcun background culturale sull'argomento, lo straordinario e crescente successo delle birre artigianali, documentato anche nella nostra sommaria guida ai ristoranti negli USA. Anzi: il documentario si apre proprio con le interviste a una serie più o meno casuale di consumatori che tracannano boccali di Samuel Adams, Fat Tire, Anchor Steam o Blue Moon, insomma tutte le varietà di birra da noi assaggiate (e qualcosa in più) nel corso del nostro viaggio.
Non che la nostra testimonianza diretta forse necessaria per aggiungere motivi d'interesse al film: l'inchiesta è godibilissima e frizzante, malgrado il ritmo cali un po' nella seconda parte, e soprattutto offre un punto di vista inedito su un settore che tutti gli appassionati della bevanda di Gambrinus farebbero bene a tenere d'occhio nei prossimi anni. Secondo esperti del calibro di Lorenzo Dabove, in arte Kuaska (il più conosciuto degustatore italiano di birra), i birrifici artigianali stanutitensi stanno infatti in molti casi superando quelli europei per creatività, innovazione e qualità del prodotto. Certamente lo hanno fatto da tempo sul piano delle quantità: come si sa "everything is bigger in America", e quindi dal desolante scenario degli anni Settanta, in cui tre grandi gruppi si dividevano l'intera torta, siamo passati oggi a un brulicare di aziende considerate "micro", che da noi sarebbero giudicate giganti industriali. Non si tratta di una novità assoluta, naturalmente: a inizio secolo la birra artigianale era praticamente un must in tutte le fattorie degli USA, poi venne il proibizionismo e, alla ripresa del commercio ufficiali, le multinazionali - quasi tutte arrivate dall'Europa - presero a fare il proprio mestiere, cioè a fagocitare e assorbire qualsiasi piccolo produttore che osasse opporsi al loro predominio.
Il documentario della Baron - ex produttrice di Hollywood, consulente, executive di una catena alberghiera e soprattutto manager di "Mike Hard's Lemonade", diffusissimo drink alcolico - ha il pregio e il difetto di rappresentare un punto di vista totalmente esterno al settore birrario: da una parte, quindi, racconta lo stato dell'arte con piglio giornalistico e divulgativo, dall'altro calca un po' troppo la mano sul tema "Davide contro Golia", attaccando frontalmente il gigante Anheuser-Busch e prendendo fin troppo esplicitamente le parti dei "piccoli" birrai artigianali. Certo, le argomentazioni dell'autrice sono stringenti e spesso è difficile non condividerle: la distribuzione della birra, per esempio, è organizzata a uso e consumo delle grandi industrie, che mirano a soffocare qualsiasi iniziativa privata, producono birre standardizzate dall'aroma indistinguibile, fanno incetta di marchi locali o d'importazione e, naturalmente, formano una lobby che è tra i principali finanziatori delle campagne elettorali e degli eventi sportivi di maggiore audience. Ma al di là di ogni giudizio morale sulle "cattive" multinazionali, ciò che colpisce è constatare quanto sia vivo nel mercato USA l'interesse per una diversificazione del prodotto-birra, esattamente l'opposto di quanto normalmente si imputa all'alimentazione d'oltreoceano e, potremmo dire, all'american way of life in generale. Il consumatore, è inequivocabile, quando ha gli strumenti per farlo punta con decisione sul prodotto di qualità, rifiutando la serialità e la standardizzazione. Parliamo sempre di una piccola fetta del mercato - il 5%, comunque molto rilevante in valori assoluti - ma non è poco, visto l'impressionante squilibrio delle forze in campo, e la tendenza è in qualche modo rassicurante.
È una situazione che, d'altronde, conosciamo bene: in Italia l'esplosione delle birre "autoprodotte", dopo decenni di Nastro Azzurro o di Wuhrer (con tutto il rispetto), è un fenomeno degli ultimi quindici anni. E chissà che il risveglio dei birrai americani non possa generare, come di solito accade, un ulteriore impulso per tutto il settore a livello mondiale...
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Un altro pericolo, forse non così remoto, è che i gusti degli acquirenti stranieri possano modificare le modalità di produzione: "Questo lo evitiamo grazie ai controlli, per fortuna il Consorzio impone regole che sono identiche per i piccoli e i grandi produttori: il test sulle materie prime, ad esempio, viene effettuato sempre sul 50% delle produzioni. Si cerca in tutti i modi di standardizzare anche in questo senso. Poi è naturale: se fanno i soldi falsi, magari qualcuno fa anche il San Daniele falso, è già successo". Infine il Salone del Gusto: le piccole aziende lo trovano fondamentale per farsi conoscere, ma un marchio già noto quali benefici può trarne? "Tantissimi - risponde convinto Leonarduzzi - perché le fiere di settore possono servire, ma alla fine quello che conta è il parere del pubblico. Il Salone ci permette di raggiungere innanzitutto le scuole, i bambini, che bisogna educare fin da piccoli a riconoscere il gusto delle cose buone. Mio figlio la sera quando torna da scuola mi chiede spesso: mi affetti del prosciutto? Giuro che non gliel'ho imposto, è lui a chiederlo e io glielo dò volentieri, piuttosto che lasciargli mangiare merendine o... altre cose che non nomino".
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