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La legge del Mercato

Le rivoluzioni, anche quelle meno cruente, creano sempre uno spartiacque: l’entusiasmo dettato dalle novità si contrappone, in misura variabile, alle recriminazioni dei nostalgici. La rivoluzione di Terra Madre Salone del Gusto, il mega-evento di Slow Food uscito per la prima volta dai padiglioni del Lingotto per riversarsi nelle strade di Torino, non fa certo eccezione: “Niente sarà più come prima”, sarà anche poco originale ma lo dice il presidente Gaetano Pascale, e l’osservazione vale nel bene come nel male. All’indomani della festa torinese, durata dal 22 al 26 settembre con la partecipazione di oltre 7000 delegati di Terra Madre da 143 paesi del mondo, schierarsi è d’obbligo ma non è semplice: malgrado la nostra veneranda età, non vogliamo ancora iscriverci al partito dei reazionari, eppure dobbiamo ammettere che non tutto in questa nuova formula ci è piaciuto.

Di certo c’è che il “Salone fuori” ha riscosso un successo clamoroso, e questo solo un pazzo potrebbe metterlo in dubbio: al momento in cui scriviamo non è ancora disponibile una stima ufficiale sul numero di visitatori, ma nella sola giornata di domenica sono state ampiamente superate le 500mila presenze. Foodies e semplici curiosi, agevolati anche da una serie di strepitose giornate quasi estive, si sono precipitati a migliaia nei luoghi simbolo di Torino per assaggiare, degustare o sbranare, ma soprattutto per acquistare: più di un espositore ha dovuto dichiarare il sold out con largo anticipo e la cosa ha fatto piacere a molti, anche se non a tutti. Anche dal punto di vista “filosofico”, in astratto, l’evento ha rispettato i principi di Slow Food: far conoscere a più persone possibili le eccellenze dell’agricoltura e dell’allevamento nel mondo, sensibilizzare il pubblico su temi fino a qualche anno fa impensabili come biodiversità, land grabbing o consumo sostenibile, uscire dal clan di food blogger e appassionati per rivolgersi direttamente alla massa. Insomma, “affermare che il buono, pulito e giusto è un diritto di tutti e tutti devono poter dunque essere partecipi”, per citare ancora Pascale.

Nella pratica, non sempre le cose sono andate in questo modo. Svincolata dal suo DNA fieristico e aperta al pubblico, la manifestazione ha finito per perdere il suo carattere basato sulla curiosità dell’incontro e sul melting pot di conoscenze e culture, per trasformarsi più banalmente in un gigantesco mercato a cielo aperto. Con un flusso così imponente e incessante di visitatori (specialmente nel Parco del Valentino, letteralmente preso d’assalto), per gli espositori è venuta meno quasi ogni possibilità di raccontare se stessi, la propria storia e il proprio prodotto: qualcuno ci ha provato lo stesso, con ingegno e pazienza, ma la grande maggioranza si è limitata a vendere a scatola quasi chiusa, in un proliferare di panini, aperitivi e piatti degustazione a pagamento. Le stesse aree dedicate alla birra artigianale, allo street food e ai gelati tra piazza Castello, via Po e i Murazzi, pur piacevolissime e di grande qualità, non sono sembrate molto diverse da una qualunque delle kermesse domenicali che ormai nessuna piazza d’Italia si nega. Certo, non sono mancati i momenti più “culturali” come conferenze, mostre e incontri B2B; tutti però circoscritti (giustamente) in location molto specifiche, relativamente lontane dai percorsi del grande pubblico. Nelle passate edizioni del Salone del Gusto poteva capitare, tra una Mortandela della Val di Non e un succo di bergamotto, di infilarsi in una degustazione guidata, assistere casualmente allo speech di un agricoltore del Benin o farsi catturare dalla proiezione di un documentario: la nuova formula, salvo rari casi, ha reso impossibile questo coinvolgente mix.

Detto questo, troppi rimangono i pregi della manifestazione per lasciarsi trasportare dal vortice delle critiche. Il fascino inimitabile dei panorami torinesi, da piazza San Carlo al Po, batte 100 a 1 gli asettici padiglioni di una fiera; il successo delle attività di Slow Food Education, che hanno coinvolto oltre 1800 bambini, dei Laboratori del Gusto, della Scuola di Cucina e delle conferenze (più di 5000 partecipanti) fa ben sperare anche per il futuro. E poi a far saltare il banco, dal nostro punto di vista, c’è la possibilità di scoprire sapori, profumi e tecniche di produzione degli oltre 400 Presìdi Slow Food dall’Italia e dal mondo, saltando liberamente dal capocollo di Martina Franca ai caprini di Capo Verde, dai biscotti armeni al melograno allo Slatko di fichi selvatici, dal salame di Fabriano agli infusi del Rosson, dal Mishavine albanese al gelato di fragolina di Tortona, e così via senza soluzione di continuità. Per non parlare dei piatti internazionali offerti dalle Cucine di Terra Madre, come le foglie di manioca con riso e carne di maiale dal Madagascar: una prelibatezza. Aver messo questo straordinario patrimonio a disposizione del pubblico è un merito di inestimabile valore: la prossima sfida, non meno stimolante, e fare sì che il pubblico lo accolga con consapevolezza e – perché no – con amore, non come una curiosità da weekend o un’ennesima spesa al supermercato.

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