La cucina del frattempo
C’era una volta lo chef superuomo, infallibile e irraggiungibile, circondato da uno stuolo di adepti adoranti e fanatici. Ora il vento del cambiamento è arrivato anche in (alta) cucina: e non, per fortuna, nel senso dello svilimento di culture e professionalità, cosa che purtroppo vediamo avvenire quotidianamente in molti campi della società e della politica, ma in quello di una maggiore propensione all’empatia, alla condivisione, al racconto di sé e del proprio lavoro. “We are storytellers”: lo ha detto José Avillez, bistellato chef portoghese, nel corso della quindicesima edizione di Identità Golose, che si è svolta a Milano dal 23 al 25 marzo e che possiamo tranquillamente considerare un’eclatante dimostrazione di questo trend. Non per caso il congresso milanese, che già da qualche anno si è smosso dalla pura (auto)celebrazione per provare a intercettare le nuove tendenze in atto, ha proposto come tema del 2019 la memoria: intesa in chiave futura, come capacità di lasciare un segno del proprio passaggio in cucina, ma dai più interpretata anche come riscoperta e riappropriazione delle tradizioni gastronomiche, delle proprie radici culturali e persino dei ricordi personali. Significativo – anche dal punto di vista psicologico – che almeno due dei relatori abbiano voluto ricordare la figura materna da cui, in un certo senso ha avuto origine la loro carriera: la madre di Avillez non sapeva cucinare, quella di Ezra Kedem si ammalò gravemente, e fu così che i due futuri chef iniziarono a cimentarsi con i fornelli, fondamentalmente spinti dalla fame.
Proprio l’inventore dell’Arcadia di Gerusalemme, per vent’anni rinomato ristorante e oggi laboratorio di cucina, è forse la figura che meglio di tutte riassume l’approccio di cui abbiamo parlato: nato in Israele, ma di padre iracheno e affascinato dall’Italia, Kedem incentra tutta la sua arte culinaria sul recupero e la rielaborazione delle antiche usanze popolari. Per lui “dire che non esiste una cucina israeliana sarebbe come dire che non esiste lo stato di Israele”: questione di identità, in una parola. Nelle sue ricette la cucina tradizionale ebraica (che, sorprendentemente per noi, fa largo uso di pasta) viene contaminata da ingredienti mediorientali e mediterranei: nascono così l’ “espresso israeliano”, cioè una densa e speziata zuppa di lenticchie, ma anche le orecchiette con salsa di pinoli, uvetta e cipolle accompagnate da filetti di triglia con zest di limone e salvia, e la celebre zuppa di fagioli con maccheroni, che richiede quasi due giorni di preparazione. Kedem affascina per il suo modo istintivo e genuino di maneggiare il cibo, un altro modo per riavvicinarsi alla dimensione artigianale della cucina, ma anche per i suoi racconti che scavano tra memorie perdute, scoprono collegamenti insospettabili tra culture in apparenza distanti: le orecchiette pugliesi, ad esempio, ricordano molto da vicino le “orecchie di Amman”, tipico biscotto ebraico, e la pasta fredda (secondo Ezra) fu inventata per permettere agli ebrei di non cucinare nel giorno di Shabbath. Ma non è difficile nemmeno cogliere il legame tra la pasta e fagioli israeliana, a quanto pare il piatto tipico del venerdì a Gerusalemme, e quella che costituisce un caposaldo di molte nostre cucine regionali.
Ci siamo dilungati su Kedem, ma un discorso simile lo si potrebbe fare per molti degli chef visti a Milano. La ragazza prodigio della ristorazione italiana, Isabella Potì (24 anni e un’incredibile carriera alle spalle nei migliori ristoranti d’Europa), lavora in un contesto e con metodi decisamente d’élite, ma guardacaso al congresso ha presentato due piatti basati su un gusto che più casalingo e familiare non potrebbe essere: il rancido, “un difetto che se dosato può diventare un pregio, un po’ come l’isolamento in cui vive il Salento”. Karime Lopez, miglior chef Under 40 del 2019 e a capo della raffinatissima Gucci Osteria di Bottura, arriva dal Messico e quindi sa bene quanto la memoria sensoriale possa variare da persona a persona: gli italiani “possono raccontare la propria storia con un piatto di pasta”, per i messicani i sapori dell’infanzia sono quelli di tortillas e tostadas. Su queste basi nasce la sfida del ristorante di Piazza della Signoria: “Un costante esercizio per trasformare esperienze sorprendenti in memorie durature”, per usare le parole di Karime. Persino Heinz Beck, uno non particolarmente incline ai sentimentalismi, si lascia andare al racconto della sua ricetta del cuore: il pane natalizio con frutta secca della nonna, per l’occasione completamente rivisto e scomposto. Già, perché pur prendendo le mosse da tre detti della tradizione (“L’uomo non vive di solo pane”, “Gallina vecchia fa buon brodo”, “Ti sei scottato con la patata bollente e ora soffi sul gelato”), l’obiettivo di Beck resta quello di innovare: “La memoria senza creatività diventa ripetizione, e la ripetizione uccide”. Così nascono, ad esempio, le sorprendenti patate liofilizzate, ricoperte di un delicato sorbetto floreale e servite su una finta brace ghiacciata: in sostanza un numero di magia, prima ancora che un piatto, perché tirando le somme quello che conta è colpire l’immaginazione del pubblico e, per l’appunto, imprimersi nella sua memoria.
L’edizione 2019 della kermesse milanese è stata anche quella del debutto di Identità di Carne: per la prima volta una sezione interamente dedicata a questo tema, un atto di coraggio in tempi di estremismi vegetariani. Per inaugurarla con delicatezza e attenzione non ci poteva essere miglior relatore di Diego Rossi, il creatore dell’acclamata trattoria Trippa a Milano: uno che di carne ne mangia pochissima, ma proprio per questo si fa un vanto di utilizzarla in ogni sua parte e senza buttare via niente, e che mentre maneggia disinvoltamente un capretto intero può invitare in modo credibile a tenere sempre presente la provenienza della carne, a consumarla in modo responsabile, a pagarla per il suo reale valore. In più, cosa non trascurabile, Rossi parla bene e cucina altrettanto bene, e in soli 45 minuti è in grado di offrire agli entusiasti presenti un’eccezionale carrellata di piatti tutti a base di pecora: dalla deliziosa tartare (anche nella versione con maionese di cervella) alle crépinette, passando per la spalla al forno e per la fregola con pancia di pecora, mille modi per riscoprire una carne spesso misconosciuta e bistrattata.
Tutto il resto è Identità Golose, nel bene e nel male: una cascata di premi e riconoscimenti per tutti, sponsor un po’ invadenti e stand commerciali di ogni tipo, code chilometriche – malgrado i prezzi dei biglietti d’ingresso – per aggiudicarsi l’ultima pizza fritta di Sorbillo o scattare il millesimo selfie con Cracco, ma anche degustazioni delle prelibate ostriche di David Hervé e di Ostra Regal (ricoperte di petali d’oro), oppure show cooking allo stand del Perù con una dimostrazione pratica della preparazione di tre diverse tipologie di ceviche. Classici pregi e difetti per un appuntamento che quest’anno ha goduto anche di un’imponente copertura mediatica grazie alla collaborazione con Mediaset (qui tutti i servizi realizzati da TGCom). E che, soprattutto, ha riscoperto il piacere di mostrare il “volto umano” dell’alta cucina. Come ha quasi urlato lo chef berlinese Tim Raue in chiusura del suo intervento: “Se vuoi lavorare nella gastronomia devi essere social nel mondo reale, non su Instagram”. Anzi, “not on fucking Instagram”, per non lasciare il minimo dubbio sul concetto.
La nostra gallery fotografica sull'evento:
Foto da Identità Golose 2019