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Busto Arsizio diventa slow

In sei anni dal nulla a una delle guide più prestigiose d’Italia. Sarebbe una parabola certo esaltante, ma quasi “normale” se il ristorante in questione non fosse l’osteria “La Rava e la Fava” e soprattutto se non si trovasse a Busto Arsizio, il che rende la sua ascesa praticamente un miracolo. Ne è ben conscio il proprietario e chef Fabio Rivolta (nella foto), che fin dai saluti mette subito in chiaro le cose commentando l’inserimento del suo locale nella guida “Osterie d’Italia 2009” edita da Slow Food: «E’ una grandissima soddisfazione, soprattutto perché ottenuta in una zona non semplice». E questo, come purtroppo sappiamo, è un eufemismo.
Qualche contatto con Slow Food, in particolare con le condotte di Gallarate e Legnano, c’era già stato, ma il riconoscimento è arrivato inaspettato: «È stata una bella sorpresa - commenta Rivolta - e la prendo come un attestato del buon lavoro svolto fin qui».
Il ristorante, situato in una zona relativamente periferica della città, è nato nel dicembre del 2002: all’epoca Rivolta, di origini bustocche, aveva alle spalle un’attività di cuoco presso alcuni ristoranti della zona e qualche lavoro stagionale in Trentino e sulla Riviera romagnola, e fu coinvolto nella nuova impresa da un socio che poi avrebbe abbandonato l’attività.

Il nome sull’insegna, come dice lo stesso chef, «rispecchia un po’ la filosofia del locale: sia perché è legato a un detto tipico del territorio, sia perché dà l’idea di due persone che si incontrano e chiacchierano, raccontandosi appunto “la rava e la fava”, quindi anche cose apparentemente superflue, e si prendono tutto il tempo necessario magari davanti a un buon piatto e a un bicchiere di vino. Ecco, questo è il nostro modo di fare: non mettiamo fretta ai clienti, non ci interessa certo fare il “doppio turno” alla sera… è anche un po’ una filosofia “slow”, se vogliamo».
Nella piccola ma accogliente sala che oggi ospita l’osteria prima c’era un bar ad apertura diurna, che non offriva molto al palato se non qualche piatto di piccola cucina. Il locale si è presentato quindi come un’assoluta novità ma non ha impiegato molto a creare una sua solida clientela, prima grazie alle conoscenze personali dei due gestori, poi a un rapido passaparola che già nel 2004 (periodo in cui, per inciso, è stato recensito per la prima volta dalle Locuste) lo ha reso piuttosto noto. «Probabilmente – spiega Rivolta – siamo riusciti a trovare uno spazio vuoto nella ristorazione bustese, offrire qualcosa che prima non c’era». E di che cosa si tratti è evidente scorrendo il menu: un mix piuttosto audace, e atipico per i locali targati Slow Food, tra qualche piatto tipico del territorio (rustisciana, brusciti, cassoeula) e molte interpolazioni da altre regioni, con pietanze incentrate su prodotti di alta qualità. «Fin dai primi mesi – ricorda Rivolta – ci siamo accordati con un macellaio toscano per farci arrivare carni di razza chianina, salume di cinta senese e anche il prosciutto di maiale grigio del Casentino, presidio Slow Food. Poi abbiamo cominciato a fare ricerche su altri prodotti di nicchia come la robiola di Roccaverano, la polenta biologica e le tome di capra che ci arrivano dalla Valle d’Aosta, la bottarga di Cabras». La fortuna del locale, però, l’hanno fatta in gran parte anche i vini: «La scelta di puntare solo su quelli italiani ha pagato, anche se purtroppo la zona è molto povera. Abbiamo molti prodotti di cantine piemontesi, toscane, abruzzesi, e in misura minore di tutte le altre regioni». Proprio grazie alla carta dei vini l’osteria ha collezionato un primo e un terzo posto nel concorso nazionale indetto da Bargiornale.

Infine l’ultimo dettaglio che ha contribuito al successo: i prezzi, ancora oggi contenuti sui 35-40 euro per un pasto completo - il che, tra l’altro, rappresenta o dovrebbe rappresentare un criterio di selezione fondamentale della guida Slow Food. Una dimostrazione del fatto che è possibile fare della ristorazione di alta qualità restando accessibili per tutte le tasche: «Certamente sì – conferma Rivolta – si tratta solo di considerare il giusto rapporto qualità-prezzo. Non dico che si debba rinunciare al guadagno, ma ci si può accontentare, è chiaro che poi si tratta di scelte personali. Vedo spesso ricarichi sui vini che mi sembrano davvero esagerati, anche perché rispetto al vino in fondo il nostro lavoro si limita al portare la bottiglia in tavola e stapparla…».
Un punto di vista che purtroppo non tutti condividono, tanto che secondo Rivolta l’errata politica dei prezzi è una delle cause principali del desolante panorama della ristorazione in provincia di Varese, nel quale la Rava e la Fava rappresenta una vera e propria isola felice. «Non c’è cultura della ristorazione – commenta desolato lo chef – prevale la volontà di guadagno e i prezzi sono poco onesti, probabilmente si bada poco alla qualità. Ma i tempi del guadagno facile sono finiti: i clienti si sono un po’ “svegliati” e a fregarsi con le proprie mani ci vuole poco. Troppo spesso vedo locali che aprono e chiudono o cambiano gestione nel giro di uno, due anni». E allora? «Lo spazio per fare qualcosa c’è, come siamo riusciti noi possono farcela altri: l’importante è avere amore per quello che si fa, non ci si inventa cuochi da un giorno all’altro e neanche ristoratori, anche se quest’ultimo termine mi sta un po’ stretto». Mancano anche manifestazioni ad hoc per valorizzare i locali della zona, come quella tentata qualche anno fa e poi abortita a Gallarate: «Se si cercasse di fare qualcosa, partecipare sarebbe interessante, così com’è stato importante prendere parte al BA Book (il festival del libro organizzato a Busto Arsizio negli ultimi due anni, n.d.r.) che ci ha offerto un’occasione per promuovere la nostra attività attraverso un’associazione tra cucina e cultura».

Parlando del territorio della provincia il discorso si allarga anche ai produttori, che quasi sempre brillano per la loro assenza nelle grandi manifestazioni nazionali e anche nei circuiti commerciali. Qui la situazione è meno tragica ma comunque poco esaltante: «Qualche prodotto c’è - spiega Rivolta - ma quello che manca è la pubblicizzazione delle aziende, non si sa mai a chi rivolgersi. Ad esempio ci sono i caprini della Valcuvia, le tome di capra di Lainate che però ho conosciuto solo attraverso un servizio in tv; recentemente sono entrato in contatto con un contadino a cavallo tra le province di Como e Varese che produce patate, verze e cavolfiori. Ma sono scoperte totalmente casuali: bisognerebbe organizzare meglio la filiera, basterebbe anche solo un censimento per creare una lista dei produttori a cui rivolgersi».
Tirando le somme, il settore non è certamente al massimo del suo splendore ma neppure c’è da strapparsi i capelli: «Indubbiamente c’è un calo legato alla crisi economica, ma con una buona politica dei prezzi si riesce ad andare avanti. La differenza si vede non tanto nella quantità di persone che frequenta il ristorante quanto nella quantità di ciò che mangiano. Credo però che questo testimoni anche un cambiamento nelle abitudini: nei giorni lavorativi si tende a consumare pasti più leggeri. Anche per questo ha molto successo la nostra proposta di vini al calice (di solito 5 rossi, 3 bianchi e 3 passiti), che funziona molto bene proprio perché molti non vanno oltre un piatto e un bicchiere di vino».
L’ultimo accenno è ai progetti per il futuro: anche se il menu, come si è detto, comprende piatti di origine eterogenea, qualche tentativo in direzione della cucina “a chilometro zero” si sta facendo, e in particolare sono già in atto i contatti con un’azienda di Magnago che alleva mucche di razza piemontese. Un ulteriore passo verso quella filosofia slow che, finalmente, sembra iniziare a mettere radici anche in lande finora assai poco ospitali per la buona cucina…
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Dimmi quel che mangi...

Limone Interdonato e prosciutto di San Daniele, mele dei Monti Sibillini e trippa di Moncalieri, miele polacco e caciocavallo di Frosolone, carciofi bianchi di Pertosa e capocollo di Martina Franca: sono solo una minima parte dei sapori e dei profumi rimasti indelebilmente impressi nella memoria di chi ha avuto l’occasione e la fortuna di visitare, tra il 23 e il 27 ottobre, l’edizione 2008 del Salone del Gusto, la manifestazione biennale indetta da Slow Food tenutasi al Lingotto di Torino.
Ogni descrizione rischia di risultare inadeguata per un evento in grado di richiamare oltre 180.000 visitatori in cinque giorni, e che su uno spazio di più di 60.000 metri quadrati riesce ad accorpare 432 bancarelle (il 25% in più rispetto al 2006), 188 stand, 26 aree ristorazione organizzando per di più circa 400 tra degustazioni, laboratori, conferenze e incontri.
Si sappia però, una volta per tutte, che i superlativi non sono di circostanza.

Viaggio alle radici del gusto” è il claim del Salone di quest’anno, che trova spiegazione nella profonda compenetrazione con la manifestazione gemella Terra Madre, il meeting internazionale delle comunità del cibo in cui oltre 7000 tra agricoltori, allevatori, pescatori e altri lavoratori del settore alimentare provenienti da tutto il mondo si sono incontrati per condividere i rispettivi saperi e per discutere delle problematiche della propria comunità. Temi, è inutile dirlo, sempre più caldi, portati alla ribalta sia dalla crisi economica in corso, sia dall’imminenza dell’Expo 2015 che a Milano verterà proprio sul tema dell’alimentazione.
Per questi motivi l’attenzione mediatica rivolta al Salone è stata ben superiore rispetto alle precedenti edizioni e gli organizzatori non hanno mancato di sfruttare l’occasione, innanzitutto piazzando proprio all’inizio del percorso di visita la Strada Maestra: una serie di stand e installazioni che poneva l’accento sui temi cari a Slow Food, dalla giustizia sociale alla sostenibilità, dalla lotta agli sprechi al rispetto dell’ambiente (tutta la manifestazione è stata realizzata con tecniche e materiali a basso consumo, e ovunque campeggiavano contenitori per la raccolta differenziata). Un Salone programmaticamente pedagogico, alla ricerca di un consumo più consapevole, il cui contenuto si riassume in tre parole: educa, tutela, promuove. Proprio questo filone “educativo” è una delle novità principali che si è trovato di fronte chi era stato ospite delle precedenti edizioni, ma non è certo l’unica. Tra le più interessanti si segnalano i Mercati della Terra, una rete di mercati locali che promuove e distribuisce i prodotti delle zone d’appartenenza; le Cucine di Strada, bancarelle di specialità “da passeggio” come il kebab, la focaccia di Recco, la trippa fiorentina e l’eccezionale bombetta pugliese; la Piazza della Birra, in cui sono rappresentate le birrerie artigianali italiane e straniere; e Pensa che Mensa, un’area di sperimentazione con l’obiettivo di assicurare la qualità anche nella distribuzione dei pasti quotidiani in aziende, scuole e luoghi di lavoro.

La prima sensazione resta comunque, per il visitatore appena giunto a Torino, quella di un bambino fortunato la mattina di Natale. Troppi i “doni” da scartare, troppe le degustazioni guidate da non perdere, troppi i motivi di interesse, troppe le iniziative collaterali: dai Master of Food alla Banca del Vino, dagli Incontri con l’autore agli appuntamenti per le scuole (“Orto in condotta”). Una strada dispersiva, ma ammaliante, è quella di lasciarsi rapire da profumi e sapori, navigando liberamente prima nel Mercato, in cui trovano posto piccoli e grandi produttori da tutta Italia e dall’estero, e poi nella zona dei Presìdi Slow Food, in cui sono rappresentati i prodotti che per qualità e caratteristiche di lavorazione sono contrassegnati da un neonato marchio di garanzia. Più di 300 quest’anno i Presìdi, con un’ampia rappresentanza dall’estero: 3 asiatici, 10 africani e 29 dall’America Latina.
Le storie da raccontare sono infinite, gli aromi da apprezzare pure: l’eccezionale sedano nero di Trevi e la vastedda della valle del Belice (unico formaggio di pecora a pasta filata), il pollo olandese di Chaam e il “salampatata” di Caluso, la salsiccia di Bra e la malvasia di Bosa, la senape tedesca e gli oli di Molfetta, il formaggio nel sacco e la Tsamarella di Cipro, il piacentinu di Enna (tipico formaggio siciliano con zafferano e pepe) e le mandorle dell’Uzbekistan, la gallina dalle uova azzurre e il liquore di fichi d’india, in un’overdose di gusto e di qualità.

Tutto perfetto, dunque? Tutto buono, pulito e giusto? Quasi. Di fronte alla debordante varietà di cibi, di gusti e di modalità di alimentazione, allo straordinario arricchimento culturale derivante da questo momento di reciproco scambio e conoscenza, di fronte alla realizzazione di un sogno apparentemente impossibile (perché il racchiudere in uno spazio e in un tempo così angusto le antichissime storie di tanti popoli e tante generazioni non può essere altro che tale), un dubbio rimane: siamo davvero pronti a rinunciare a tutto questo nel nome del pur benemerito localismo, della difesa della tradizione, della sostenibilità? Oppure la “globalizzazione” – per usare un termine ormai logoro – è penetrata nelle nostre abitudini così profondamente che della contaminazione e della multiculturalità, intesa come risorsa per migliorarsi e non certo come occasione di scontro, non possiamo davvero più fare a meno?
E’ una domanda a cui si dovrà trovare una risposta in breve tempo, se è vero che, come nelle parole di Jean Anthelme Brillat-Savarin, “il destino delle nazioni dipende dal modo in cui si nutrono”.
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Video: Intervallo

Le Locuste festeggiano 5 anni di faticosa ma onorata attività con un riassunto delle loro performance culinarie

Editing: Navigatore Capo


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Foto da Mantova

Alcune immagini della visita a Mantova e a Bondeno di Gonzaga (3 ottobre 2008), quest'ultima in occasione della Festa dell'Uva. Vedi anche la recensione dell'Osteria delle Quattro Tette


"Salumi e salami" in piazza Sordello


Vendemmia a Rolo


L'ingresso della Festa


Piatti tipici e Lambrusco


Sbrisolona con grappa


La cottura del mosto per il "sugul"
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LocusTour 2008

Questa volta è la Spagna, per la precisione l'Andalusia, a ospitare le imprese estive delle Locuste (18-27 agosto 2008). Qui solo un assaggio fotografico, vedere anche le singole recensioni:
Cerveceria La Caña
Restaurante El Rescoldo
Taberna El Piyayo
Restaurante La Mar Chica
Bodegas Castañeda
La Campana
Restaurante Los Cañizos
Restaurante Marisqueria Casa Bernardo
Arroceria Atlantico
Marisqueria Manguita
Restaurante La Abbadia
Cafe Bar Ramirez
Mesones del Serranito
Bar Juanito
The Angry Friar
Peña Flamenca Juan Villar


Le prime tapas del viaggio alla Cerveceria La Caña


Il Mastro Coppiere si dà alla cucina


Un ospite un po' provato dalla cena


Umorismo e simpatia alla Plaza de Toros di Ronda


Veduta notturna di Cadiz


I quattro protagonisti dell'impresa

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