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Foto da Vinitaly 2019

L'edizione 2019 di Vinitaly, la più grande fiera mondiale del vino, si è svolta a Verona dal 7 al 10 aprile. Di seguito una breve carrellata di immagini: per tutte le altre informazioni consultate il nostro reportage Così prezioso come il vino!


Il classico benvenuto all'ingresso della fiera

Una delle più efficaci tra le tante campagne pubblicitarie


Il padiglione del Veneto


Questione di etichetta: I Vini di Emilio Bulfon


Stand dedicati al sake nel padiglione internazionale


Sauvignon Blanc dal mondo (Francia, Cile, Nuova Zelanda) nella degustazione di Vinitaly International


Gli stand della FIVI, tra i più visitati della rassegna

Un brindisi con l'immancabile Paolo Carlo Ghislandi della Cascina I Carpini!


Il padiglione della Sardegna


Il Consorzio del Primitivo di Manduria ci presenta tre vini eccezionali

Al Vinitaly siamo i benvenuti? Non sempre...


Il padiglione dell'Emilia Romagna


Come nasce il vino: i diversi terroir emiliani


Le etichette della cantina Montaia disegnate dal grande Tonino Guerra


La Riserva del Trecentenario: il Consorzio del Chianti Classico presenta i grandi vini del 2016

Una piccola Arena anche in Toscana...


Lo scenografico stand delle cantine Argei


Il consorzio Vi.Te (Vignaioli e Territori) ha coinvolto decine di produttori da tutta Italia


Quando si parla di bolle i due draghetti della Taito non possono mancare!

Il Serranu delle Cantine Tani è stato premiato come miglior rosso del 2019

Per chiudere in bellezza, le grappe e i distillati della premiatissima distilleria Marzadro


Moltissimi gli eventi fuorisalone di Vinitaly and the City


Arrivederci alla prossima edizione!
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Così prezioso come il vino

“Tu che lo vendi, cosa ti compri di migliore?”: per completare la citazione faberiana del titolo apriamo così, con una domanda rivolta agli oltre 4600 espositori partecipanti, il nostro resoconto su quello che molti hanno definito il Vinitaly più grande di sempre. I numeri ufficiali forniti dagli organizzatori confermano quella che era stata un’impressione assai tangibile durante i quattro giorni della rassegna, svoltasi a Verona dal 7 al 10 aprile 2019: 125mila visitatori, 80mila dei quali hanno partecipato agli eventi del "fuorisalone", 33mila buyer esteri da USA, Germania, UK, Cina, Canada e altre 140 nazioni (il 3% in più dello scorso anno), più di 1 milione di visite al sito ufficiale nelle ultime due settimane. Una grande festa a cui nessuno è voluto mancare, dalla “triade” dei governanti – a stretto giro di posta si sono succeduti in fiera il presidente Giuseppe Conte e i suoi vice Matteo Salvini e Luigi Di Maio – ad autorità locali, VIP, chef stellati, personaggi televisivi, radio, tv e giornali di vario genere. In questo scenario rutilante e seducente, il problema principale resta però quello denunciato nell’incipit: vendere, possibilmente di più e meglio.

Inutile rivangare ancora un tema che è stato affrontato da ogni punto di vista possibile, e tutto sommato si può riassumere in due dati: l’Italia è di gran lunga il primo produttore di vino al mondo ma non è (e non è mai stato) il primo esportatore in termini di valore. Soprattutto, i vini del nostro paese faticano a imporsi sul mercato con il maggior potenziale di crescita: quello dell’Asia orientale (terzo a livello globale dopo UE e Nord America) e, in particolare, della Cina. Basterà la nuova piattaforma Wine To Asia, presentata proprio nel corso della fiera e in programma dal 2020 a Shenzhen? Speriamo, ma il fatto è che dell’espansione verso la Cina si discute ormai da tempo immemorabile senza significativi miglioramenti: anzi, nel corso dell’ultimo anno il trend di crescita si è persino invertito. Il problema del vino italiano – e anche questa rischia di essere una banalità -  è certamente l’eccessiva frammentazione, resa evidentissima anche al Vinitaly dalle enormi differenze promozionali, organizzative, politiche non solo tra diverse regioni, ma addirittura tra province, consorzi, sigle associative.

Solo che, paradossalmente, la stessa frammentazione costituisce anche la massima ricchezza del settore enologico del Bel Paese: in nessun altro luogo al mondo è possibile degustare, come accaduto nello splendido evento “La Riserva del Trecentenario” organizzato dal Consorzio Vino Chianti Classico, sei diversi vini della stessa tipologia, prodotti nello stesso anno in un raggio di una sessantina di chilometri, eppure completamente diversi l’uno dall’altro per aromaticità, corpo, tannini e ogni altro criterio di valutazione. E se questo vale per una singola regione, figuriamoci per l’intero territorio italiano: non è un caso se – al di là della nostra ignoranza – non passa un’edizione del Vinitaly senza scoprire un “nuovo” e sorprendente vitigno. Ci era successo in passato con la Tintilia e, ancora prima, il Cesanese del Piglio, questa volta è capitato ad esempio con il Bellone laziale o il Piculit Neri friulano.

Quale può essere dunque la soluzione? Se ne avessimo una, indubbiamente non saremmo qui. Magari il segreto è adottare una strategia di marketing aggressiva come gli stand del padiglione International Wine che hanno rifiutato a priori qualsiasi tipo di visitatore non interessato all’acquisto, fino all’estremo dell’eloquente cartello “No sommelier, no giornalisti, no drink”. Efficace? Bisognerebbe chiederlo a loro, ma noi non li citeremo e parleremo invece di produttori più “illuminati” e disponibili come quelli della Familia Castaño, che ci hanno fatto scoprire le delizie vinicole del Sud-Est della Spagna. Più un generale, preferiamo ancora un Vinitaly dal volto umano in cui i vignaioli, nonostante la ressa talvolta insostenibile, sono disposti a trattenersi un minuto in più con potenziali clienti e appassionati, anche se “senza portafoglio”; quello dei consorzi che promuovono, con degustazioni brevi e mirate, le attività delle piccole aziende del territorio; quello informale e scanzonato di realtà come la FIVI o l’associazione Vi.Te (Vignaioli e Territori), in cui a fine giornata i produttori si fermano sempre ad assaggiare i vini del vicino di stand, per poi scatenarsi nella vita notturna del “fuorisalone” Vinitaly and the City.

Esauriti i discorsi sui massimi sistemi, non ci resta che lasciarvi con la tradizionale panoramica delle cantine visitate: quest’anno molto più corposa, perché per la prima volta ci siamo concessi due giornate consecutive in fiera. Dopo due anni di assenza, del resto, la sete non poteva che aumentare a dismisura!

Cantina TaniMonti (SS): Il grande boom del Vinitaly, grazie all’Isola dei Nuraghi Serranu selezionato da 5StarWines come miglior rosso d’Italia, che ha attirato legioni di bevitori allo stand. E pensare che l’azienda era sempre stata specializzata nel Vermentino, tanto da chiamare con questo nome il suo agriturismo… Il vino premiato siamo infine riusciti ad assaggiarlo: è un blend di Cannonau, Muristellu e Merlot, vellutato e un po’ ruffiano, che delizierà chi trova troppo “potente” il Cannonau in purezza (come il Donosu). Ma da apprezzare sono anche i Vermentini, il Taerra e la riserva Meoru.

Cignano – Fossombrone (PU): Uno dei trending topic del vino italiano è l’affinamento in anfora o giara di terracotta, e questa cantina marchigiana lo sfrutta nel migliore dei modi, dando vita al fresco e sapido Bianchello del Metauro Superbo Ancestrale. Ottime, comunque, anche le altre “incarnazioni” del vitigno: il Brut Irrequieto, il Bianco Assoluto e il Superiore San Leone.

I Vini di Emilio Bulfon – Valeriano (PN): Una sorpresa dietro l’altra nel catalogo di questa casa vinicola, che valorizza con le sue bottiglie (anche esteticamente splendide) una serie di vitigni autoctoni friulani sconosciuti ai più. Alcuni esempi sono lo Sciaglìn, vinificato sia come bianco fermo sia in versione Brut; il Forgiarin, un rosso fruttato e intenso; l’Ucelùt, vino da dessert e da meditazione; e soprattutto il Piculit Neri, rosso esuberante e molto tannico.

Pacher Hof – Novacella (BZ): Per chi ama i vini d’alta quota non c’è nulla di meglio degli splendidi bianchi di questa piccola cantina nei pressi di Bressanone, quasi tutti affinati in botte grande “alla tedesca”. Il più interessante è forse il Grüner Veltliner, fresco e deliziosamente speziato; meritano però anche il Sylvaner, elegante e fruttato, e i grandi classici come Müller Thurgau e Pinot Grigio.

Sant’Eufemia – Cisterna di Latina (LT): Cantina giovane e molto “social”, ma che ha tanto da dire sul piano dei contenuti. Anche se il prodotto di punta è considerato il Merlot barricato Fiammingo, di ottimo corpo, noi abbiamo apprezzato in particolare i bianchi, soprattutto quelli ricavati dall’antico vitigno laziale Bellone: l’Ultimo Colle in purezza, l’Issa in versione Brut e il Chiò, un blend con il Grechetto.

Spiriti Ebbri – Spezzano Calabro (CS): Avete mai assaggiato un bianco calabrese, per di più affinato in barrique? Provate l’intenso e corposo Neostòs Bianco, ricavato dalle rare uve Pecorello, e resterete incantati. E già che ci siete, scoprite anche il Cotidie, che riunisce i principali vitigni regionali (Magliocco, Guarnaccia e Gaglioppo) e il Neostòs Rosso, un vino con ottimo potenziale di invecchiamento.

Montaia – Cesena: Nota anche per le etichette disegnate dal grande Tonino Guerra, la cantina sta cercando di modernizzare la sua immagine con una nuova linea. I vini rimangono però quelli tradizionali: il fresco e frizzante Pignoletto, il fruttato Chardonnay e soprattutto il Sangiovese Superiore, anche nell’ottima versione Riserva.

Cantine Astroni – Napoli: I vini dei Campi Flegrei sono tra i più originali d’Italia, sia per la natura del terreno sia per la loro longevità. La Falanghina, forse il primo vitigno coltivato sul territorio nazionale, è rappresentata sia dall’ottima versione base Colle Imperatrice, sia dalla cru Vigna Astroni, derivata da un antico vigneto a terrazze e di straordinaria sapidità e mineralità. Ma ancora più sorprendente è forse il Piedirosso Colle Rotondella, complesso, intenso e fruttato.

TormarescaMinervino Murge (BT): Cosa dire ancora di questa celebratissima cantina pugliese del gruppo Antinori? Molti l’hanno scoperta solo quando Madonna ha iniziato a degustare il suo rosato Calafuria, ma già in tempi non sospetti avevamo decantato le delizie dell’Aglianico Bocca di Lupo. In quest’occasione abbiamo apprezzato (di nuovo) la freschezza dello Chardonnay Pietrabianca e l’eleganza dell’annata 2016 del Primitivo Torcicoda, affinato per 10 mesi in barrique.

Le SaletteFumane (VR): Una delle più classiche aziende della Valpolicella. La perla è ovviamente l’eccezionale Amarone Pergole Vece, prodotto soltanto nelle migliori annate da uve selezionate, e affinato per ben tre anni in barrique: una bottiglia vale più di 60 euro. Da assaggiare però anche il Valpolicella Ca’ Carnocchio, elegante, raffinato e adatto anche all’invecchiamento.

Cascina I CarpiniPozzol Groppo (AL): Altra cantina di cui si è già detto tutto, ma le magie di Paolo Carlo Ghislandi non cesseranno mai di stupirci! Il Timorasso Brut Chiaror sul Masso ha ormai raggiunto la perfezione e quello affinato in anfora, ben prima che esplodesse la moda, ha assunto profumi e sapori inimmaginabili.

La Giannettola – Velletri (Roma): Cantina “rinata” nel 2017 ma con una storia decennale alle spalle, oggi presenta una buona varietà di vini, dalla Malvasia Puntinata allo Chardonnay. Grande successo stanno riscuotendo i rossi: il Roma DOC L’Ardente, caldo e fruttato, e il Cesanese Il Frangente, che al caratteristico sentore di ciliegia del vitigno aggiunge un’ottima acidità.

Occhipinti – Vittoria (RG): Esuberanti e di carattere, i vini biologici di quest’azienda siciliana sono destinati a stupire. Dolce e aromatico l’SP68 Bianco (blend di Moscato di Alessandria e Albanello), giovane e vivace l’SP68 Rosso (Frappato e Nero d’Avola), complesso e raffinato il Frappato in purezza.

Vigne Mastrodomenico – Barile (PZ): Un tempio all’Aglianico del Vulture nel suo territorio d’elezione. Al più giovane e fresco Mos si accompagna il potente e strutturato Likos, affinato in barrique per 8-10 mesi. La chicca è il passito Shekar, vino da dolci e da meditazione.

Tenuta L’Ariosa – Sassari: Il nome della cantina lo conoscono in pochi, ma basta citare i Fratelli Rau per riconoscere i più noti produttori di distillati dell’isola. I vini sono di diverse tipologie: i più famosi sono il Cannonau Assolo, il Cagnulari Sass’Antico e soprattutto l’eccellente Pedrastella, un Carignano sotto mentite spoglie (non può assumere la denominazione non essendo prodotto in Sulcis), morbido ed elegante.

Bodegas Castaño – Yecla (Spagna): Non lontano da Alicante sorge questa grande cantina che conta più di 600 ettari di terreno e diverse linee di vini. Il vitigno principale è il Monastrell: si distinguono l’Hécula in purezza, ottimo per il rapporto qualità-prezzo, e il Santa (con un 10% di Garnacha Tintorera) affinato in barrique. La cantina cerca distributori in Italia: fatevi avanti!

La TunellaPremariacco (UD): Altro nome che non ha bisogno di presentazioni. Tra i capisaldi dell’azienda la RJGialla, una Ribolla Gialla ai limiti della perfezione, e il Biancosesto, blend di Friulano e Ribolla Gialla al 50%, dallo straordinario profumo. Tra le bollicine stupisce Il Mille (Ribolla Gialla e Pinot Nero).

Celestino PecciMontalcino (SI): Azienda nata negli anni Sessanta e tra le più classiche del territorio. Il Rosso di Montalcino, affinato in barrique per 8 mesi, e il Brunello di Montalcino sono di grande struttura e personalità.

Giai – Carosino (TA): Approccio moderno e diversificato al Primitivo di Manduria per questa giovane azienda tarantina. Il prodotto di punta è il Lucré, un Primitivo elegante e leggero che contrasta con l’immagine “ruvida” del vino pugliese.

Alagna Vini – Marsala (TP): Nella sterminata produzione di questa cantina spicca ovviamente il Marsala nelle sue varie versioni, commercializzate anche con il marchio Angileri. Il Marsala Superiore Garibaldi Dolce è perfetto per intensità e pienezza del gusto.

Cantine Lizzano – Lizzano (TA), Cantine San Marzano – San Marzano di San Giuseppe (TA) e Vigne Monache – Manduria (TA): Le segnaliamo per tre diversissime tipologie di Primitivo. La prima produce il classico e robusto Manonera, affinato per 6 mesi in tonneau; la seconda l’austero e longevo Anniversario 62, in cui l’affinamento tocca i 18 mesi. Dalla terza, infine, viene il Primitivo dolce naturale 1920, un passito per nulla stucchevole ma anzi acido e beverino.

Marzadro – Nogaredo (TN): La notissima distilleria ha superato se stessa con la versione Riserva della sua grappa Le Diciotto Lune, affinata in botti utilizzate per il Porto. Una vera prelibatezza. Tra le altre novità c’è anche il gin Luz.

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Foto da Identità Golose 2019

L'edizione 2019 del congresso di Identità Golose ha portato ancora una volta a Milano, dal 23 al 25 marzo, i migliori chef italiani e internazionali. Ecco una breve galleria fotografica sull'evento: per saperne di più leggete il nostro reportage La cucina del frattempo!



Lo stand dell'azienda agricola Al Berlinghetto


Fotografi, giornalisti e curiosi affollano gli stand


Salumi di pregio allo stand Levoni


Lo chef portoghese José Avillez


L'intervento dello chef israeliano Ezra Kedem


Kedem presenta una sua creazione: orecchiette pugliesi con pinoli, uvetta, cipolle e triglia


La celebre zuppa di fagioli con maccheroni di Ezra Kedem


Degustazione di ostriche di David Hervé


Le Ostra Regal, ricoperte di petali d'oro


Show cooking allo stand del Perù: la preparazione del ceviche


Diego Rossi introduce la sezione Identità di Carne


Tartare di pecora


Fregola con pancia di pecora


Crépinette di pecora, un'altra creazione di Diego Rossi


Karime Lopez, chef della Gucci Osteria di Firenze

L'ice cream sandwich Charley Marley di Karime Lopez, in una versione speciale per Identità Golose


Heinz Beck durante il suo intervento al congresso


La giovane chef Isabella Potì a Identità di Pasta


Ancora Isabella Potì durante la preparazione degli assaggi
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La cucina del frattempo

C’era una volta lo chef superuomo, infallibile e irraggiungibile, circondato da uno stuolo di adepti adoranti e fanatici. Ora il vento del cambiamento è arrivato anche in (alta) cucina: e non, per fortuna, nel senso dello svilimento di culture e professionalità, cosa che purtroppo vediamo avvenire quotidianamente in molti campi della società e della politica, ma in quello di una maggiore propensione all’empatia, alla condivisione, al racconto di sé e del proprio lavoro. “We are storytellers”: lo ha detto José Avillez, bistellato chef portoghese, nel corso della quindicesima edizione di Identità Golose, che si è svolta a Milano dal 23 al 25 marzo e che possiamo tranquillamente considerare un’eclatante dimostrazione di questo trend. Non per caso il congresso milanese, che già da qualche anno si è smosso dalla pura (auto)celebrazione per provare a intercettare le nuove tendenze in atto, ha proposto come tema del 2019 la memoria: intesa in chiave futura, come capacità di lasciare un segno del proprio passaggio in cucina, ma dai più interpretata anche come riscoperta e riappropriazione delle tradizioni gastronomiche, delle proprie radici culturali e persino dei ricordi personali. Significativo – anche dal punto di vista psicologico – che almeno due dei relatori abbiano voluto ricordare la figura materna da cui, in un certo senso ha avuto origine la loro carriera: la madre di Avillez non sapeva cucinare, quella di Ezra Kedem si ammalò gravemente, e fu così che i due futuri chef iniziarono a cimentarsi con i fornelli, fondamentalmente spinti dalla fame.

Proprio l’inventore dell’Arcadia di Gerusalemme, per vent’anni rinomato ristorante e oggi laboratorio di cucina, è forse la figura che meglio di tutte riassume l’approccio di cui abbiamo parlato: nato in Israele, ma di padre iracheno e affascinato dall’Italia, Kedem incentra tutta la sua arte culinaria sul recupero e la rielaborazione delle antiche usanze popolari. Per lui “dire che non esiste una cucina israeliana sarebbe come dire che non esiste lo stato di Israele”: questione di identità, in una parola. Nelle sue ricette la cucina tradizionale ebraica (che, sorprendentemente per noi, fa largo uso di pasta) viene contaminata da ingredienti mediorientali e mediterranei: nascono così l’ “espresso israeliano”, cioè una densa e speziata zuppa di lenticchie, ma anche le orecchiette con salsa di pinoli, uvetta e cipolle accompagnate da filetti di triglia con zest di limone e salvia, e la celebre zuppa di fagioli con maccheroni, che richiede quasi due giorni di preparazione. Kedem affascina per il suo modo istintivo e genuino di maneggiare il cibo, un altro modo per riavvicinarsi alla dimensione artigianale della cucina, ma anche per i suoi racconti che scavano tra memorie perdute, scoprono collegamenti insospettabili tra culture in apparenza distanti: le orecchiette pugliesi, ad esempio, ricordano molto da vicino le “orecchie di Amman”, tipico biscotto ebraico, e la pasta fredda (secondo Ezra) fu inventata per permettere agli ebrei di non cucinare nel giorno di Shabbath. Ma non è difficile nemmeno cogliere il legame tra la pasta e fagioli israeliana, a quanto pare il piatto tipico del venerdì a Gerusalemme, e quella che costituisce un caposaldo di molte nostre cucine regionali.

Ci siamo dilungati su Kedem, ma un discorso simile lo si potrebbe fare per molti degli chef visti a Milano. La ragazza prodigio della ristorazione italiana, Isabella Potì (24 anni e un’incredibile carriera alle spalle nei migliori ristoranti d’Europa), lavora in un contesto e con metodi decisamente d’élite, ma guardacaso al congresso ha presentato due piatti basati su un gusto che più casalingo e familiare non potrebbe essere: il rancido, “un difetto che se dosato può diventare un pregio, un po’ come l’isolamento in cui vive il Salento”. Karime Lopez, miglior chef Under 40 del 2019 e a capo della raffinatissima Gucci Osteria di Bottura, arriva dal Messico e quindi sa bene quanto la memoria sensoriale possa variare da persona a persona: gli italiani “possono raccontare la propria storia con un piatto di pasta”, per i messicani i sapori dell’infanzia sono quelli di tortillas e tostadas. Su queste basi nasce la sfida del ristorante di Piazza della Signoria: “Un costante esercizio per trasformare esperienze sorprendenti in memorie durature”, per usare le parole di Karime. Persino Heinz Beck, uno non particolarmente incline ai sentimentalismi, si lascia andare al racconto della sua ricetta del cuore: il pane natalizio con frutta secca della nonna, per l’occasione completamente rivisto e scomposto. Già, perché pur prendendo le mosse da tre detti della tradizione (“L’uomo non vive di solo pane”, “Gallina vecchia fa buon brodo”, “Ti sei scottato con la patata bollente e ora soffi sul gelato”), l’obiettivo di Beck resta quello di innovare: “La memoria senza creatività diventa ripetizione, e la ripetizione uccide”. Così nascono, ad esempio, le sorprendenti patate liofilizzate, ricoperte di un delicato sorbetto floreale e servite su una finta brace ghiacciata: in sostanza un numero di magia, prima ancora che un piatto, perché tirando le somme quello che conta è colpire l’immaginazione del pubblico e, per l’appunto, imprimersi nella sua memoria.

L’edizione 2019 della kermesse milanese è stata anche quella del debutto di Identità di Carne: per la prima volta una sezione interamente dedicata a questo tema, un atto di coraggio in tempi di estremismi vegetariani. Per inaugurarla con delicatezza e attenzione non ci poteva essere miglior relatore di Diego Rossi, il creatore dell’acclamata trattoria Trippa a Milano: uno che di carne ne mangia pochissima, ma proprio per questo si fa un vanto di utilizzarla in ogni sua parte e senza buttare via niente, e che mentre maneggia disinvoltamente un capretto intero può invitare in modo credibile a tenere sempre presente la provenienza della carne, a consumarla in modo responsabile, a pagarla per il suo reale valore. In più, cosa non trascurabile, Rossi parla bene e cucina altrettanto bene, e in soli 45 minuti è in grado di offrire agli entusiasti presenti un’eccezionale carrellata di piatti tutti a base di pecora: dalla deliziosa tartare (anche nella versione con maionese di cervella) alle crépinette, passando per la spalla al forno e per la fregola con pancia di pecora, mille modi per riscoprire una carne spesso misconosciuta e bistrattata.

Tutto il resto è Identità Golose, nel bene e nel male: una cascata di premi e riconoscimenti per tutti, sponsor un po’ invadenti e stand commerciali di ogni tipo, code chilometriche – malgrado i prezzi dei biglietti d’ingresso – per aggiudicarsi l’ultima pizza fritta di Sorbillo o scattare il millesimo selfie con Cracco, ma anche degustazioni delle prelibate ostriche di David Hervé e di Ostra Regal (ricoperte di petali d’oro), oppure show cooking allo stand del Perù con una dimostrazione pratica della preparazione di tre diverse tipologie di ceviche. Classici pregi e difetti per un appuntamento che quest’anno ha goduto anche di un’imponente copertura mediatica grazie alla collaborazione con Mediaset (qui tutti i servizi realizzati da TGCom). E che, soprattutto, ha riscoperto il piacere di mostrare il “volto umano” dell’alta cucina. Come ha quasi urlato lo chef berlinese Tim Raue in chiusura del suo intervento: “Se vuoi lavorare nella gastronomia devi essere social nel mondo reale, non su Instagram”. Anzi, “not on fucking Instagram”, per non lasciare il minimo dubbio sul concetto.

La nostra gallery fotografica sull'evento:
Foto da Identità Golose 2019

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Te lo do io l'amarico!

Come vi è venuto in mente di visitare l’Etiopia? Questa è stata la domanda che abbiamo ricevuto più spesso al nostro ritorno dal Corno d’Africa. E la risposta è stata automatica nonché quasi obbligata: come può venire in mente di non visitarla? L’Etiopia è un luogo davvero unico al mondo: è Africa, anzi la quintessenza dell’Africa con tutte le sue contraddizioni e problematiche, ma a differenza della stragrande maggioranza dei paesi africani può vantare, accanto a un’incredibile varietà di straordinari panorami, anche un patrimonio storico e artistico di prim’ordine, dalle spettacolari chiese rupestri di Lalibela all’incantevole cittadella imperiale di Gondar. Inoltre l’Etiopia è l’unico stato del continente a non essere mai stato colonizzato (a parte la breve e infelice parentesi italiana) ed essere stato governato per gran parte della sua storia da un impero autoctono: per questo motivo gli etiopi possono vantare oggi una tradizione culturale e religiosa diversa da tutti i popoli confinanti, una propria, arcana lingua, l’amarico (che crea non pochi problemi di traslitterazione e comprensione), persino un calendario e un orario diversi dal resto del mondo. Il viaggio non presenta particolari difficoltà, fatti salvi i tentativi di borseggio ad Addis Abeba e qualche inevitabile disguido nei trasporti, e soprattutto per la parte Nord del paese (il cosiddetto “circuito storico”) può essere tranquillamente organizzato in autonomia, a costi veramente ridotti. Lo consigliamo caldamente: tra montagne incontaminate e autostrade cinesi, tra campi profughi eritrei, cristalline cascate e misteriose stele, scoprirete un’Africa simile e, insieme, diversissima da quella che fin qui avete immaginato.

Veniamo ora all’argomento che più ci interessa: il cibo. Pur non essendo, come si può immaginare, una terra per fini gastronomi, anche dal punto di vista alimentare l’Etiopia gode di alcune peculiarità che la differenziano dai paesi circostanti e non solo. Prima di tutto, è la patria del caffè, e gli italiani ne scopriranno con sgomento le delizie: ebbene sì, la pregiata bevanda può essere addirittura più gustosa in Etiopia che nel Bel Paese, sia quando viene preparata con modalità “moderne” (espresso o moka) sia, e soprattutto, quando passa dal tradizionale rito del bunna (=caffè, appunto). Quest’ultimo è una vera e propria cerimonia che si svolge ogni giorno a tutti gli angoli di strada, in case private e locali pubblici: prevede la tostatura “in diretta” dei chicchi del caffè, il lavaggio delle tazze, l’infusione in un apposito bricco di terracotta su braci preparate al momento, e persino il consumo di biscotti e pop-corn nell’attesa! Il risultato è un’esplosione di sapori e profumi destinata a cambiare la concezione del caffè di chi assaggia. Provare per credere.

Caffè a parte, la cucina etiope è semplice e piuttosto monotona. Protagonista assoluta è l’injera, tipica sfoglia spugnosa derivata dalla fermentazione del miglio e del sorgo: si potrebbe paragonare al pane, ma in realtà si usa anche come piatto da portata e come… posata, strappandone piccoli pezzi e utilizzandoli per raccogliere il cibo. C’è persino una pietanza, il firfir, costituita da injera sbriciolata e imbevuta nel sugo, da consumare naturalmente con accompagnamento di injera! Insomma, un alimento onnipresente e che “riempie” facilmente, malgrado i contenuti nutritivi non straordinari. I condimenti dell’injera sono costituiti quasi esclusivamente da carne: assente il maiale, quella di agnello o capra è preferibile al manzo, molto magro e piuttosto legnoso. La carne viene cucinata quasi sempre sminuzzata in piccoli pezzi (tibs), e talvolta anche sotto forma di stufato (wot): uno dei piatti più tipici del paese sarebbe il doro wot, stufato di pollo, ma non abbiamo mai avuto la fortuna di gustarlo perché richiede dalle 3 alle 4 ore di preparazione e va dunque ordinato con largo anticipo. Ulteriore specialità è il kitfo, a base di carne macinata cruda, anche se per ragioni sanitarie molti viaggiatori – noi compresi – preferiscono consumarlo cotto. L’altro elemento fondamentale della dieta sono i legumi: lenticchie, ceci, fagioli, fave e diverse altre varietà locali, che sono alla base dello shiro (tipica crema di legumi, servita con o senza carne) e di altre preparazioni analoghe. Quasi tutti i piatti sono abbondantemente speziati – la nota dominante è quella del berberè – e/o piccanti, con peperoncino a volontà.

Il menu sostanzialmente finisce qui: le pietanze descritte sono quasi tutte piatti unici, accompagnabili al massimo con una zuppa (ottime quelle di verdure e di lenticchie) e con qualche contorno di verdura cotta. Inoltre, specialmente nelle zone lacustri e fluviali, è possibile assaggiare piatti di pesce d’acqua dolce fritto o alla griglia, piacevole anche se non particolarmente saporito. Questo almeno per chi si vuole mantenere nel solco della cucina locale, senza avventurarsi nel consumo di pasta (presente in diverse varietà), pizza o altre “prelibatezze” occidentali. I dessert sono del tutto assenti dai ristoranti: si può trovare al massimo qualche frutto – banane o papaya – mentre per i dolci veri e propri, pochi e a base di pasta di pane, bisogna recarsi appositamente in pasticceria. A tavola si beve soprattutto birra, anche per contrastare i sapori piccanti: la Habesha, peraltro di proprietà olandese, è nettamente superiore a tutte le altre marche locali. C’è anche il vino: sebbene la scelta sia ovunque ristretta a due etichette, entrambe prodotte dalla Castel Winery, la qualità è sorprendentemente più che accettabile.

Due chicche per concludere. L’unico street food disponibile, banane a parte, sono gli ottimi sambussa, nient’altro che la versione etiope dei samosa indiani: deliziose frittelle triangolari ripiene di lenticchie o di carne. La bevanda più tradizionale dell’Etiopia è invece il tej, una sorta di idromele aromatizzato con foglie di una pianta locale: è disponibile in diverse varietà e gradazioni alcoliche, ma trovarlo non è affatto facile. Lo si consuma infatti prevalentemente in casa o in appositi e rari locali, come la Torpido Tej House di Lalibela.
A questo punto crediamo di aver detto davvero tutto: completiamo il quadro con le recensioni di alcuni dei ristoranti che abbiamo avuto la fortuna di visitare in Etiopia!

The Four Sisters Restaurant
Mimi's
Wude Coffee
Lake Shore Resort
AB Cultural Restaurant
Kana

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